Sull’Asilo Occupato.

Pubblicato: 15 ottobre 2014 in Uncategorized

Manca ancora un bel po’ alle prossime elezioni comunali, eppure a L’Aquila è già iniziata la campagna elettorale.

A dare il via è stato il Club Forza Silvio “G. Ungaretti”, seguito immediatamente dal suo partito di riferimento. La straordinarietà della vicenda, tuttavia, non sta tanto nella tempistica (a dir poco avventata) quanto nella natura della polemica scatenata dai giovani di FI: signore e signori, la legalità!

Già qualche settimana fa, in occasione del riuscitissimo Reacto Fest, tale Roberto Junior Silveri, fino ad allora sconosciuto ai più, aveva duramente attaccato il Comune per aver permesso a tale creatività di abbellire i casermoni del progetto C.A.S.E. e per non aver sanzionato il mancato rispetto delle norme di sicurezza da parte degli artisti, accusati di dipingere senza utilizzare un caschetto di protezione. Chiaramente, la polemica è stata immediatamente smorzata dalla più che positiva reazione degli inquilini del C.A.S.E., entusiati nel vedere abbellite le proprie abitazioni “temporanee” da opere d’arte.

Non felice del flop, il Club Forza Silvio, coadiuvato dai Giovani di Forza Italia, ha deciso in questi giorni di lanciare un’ulteriore polemica su una delle più importanti problematiche della città: l’Asilo Occupato. Ebbene sì: l’asilo di Via Duca degli Abruzzi è illegalmente occupato da più di tre anni, e questo ai sostenitori di Berlusconi non va proprio giù. Dovrebbe essere altra la destinazione d’uso dello stabile: ad esempio, come biblioteca o sala studio. Peccato che gli occupanti dell’Asilo abbiano già provveduto. E’ vero che “i giovani hanno bisogno di spazi”, come afferma Luca Rocci in un comunicato stampa: peccato che l’autore si sia dimenticato di affermare che sempre gli stessi occupanti si siano preoccupati di risistemare un posto abbandonato al degrado per restituirlo agli stessi giovani da lui citati. Ancora, gli stessi occupanti si sono preoccupati, a differenza di FI e affiliazioni varie, di dare ai ragazzi delle alternative alla routine alcolica e droghereccia cittadina: cineforum, laboratori di arte e teatro, dibattiti culturali, attività sportive, decine e decine di concerti di tutti i generi musicali. Per lo più, senza guadagnarci un euro: il tutto, all’Asilo Occupato, è portato avanti grazie all’autofinanziamento.

L’aspetto che trovo più divertente, nella nuova e nella vecchia polemica di FI, è la richiesta di legalità avanzata dai rappresentanti locali del partito di Berlusconi. Chiaramente, la contraddizione FI – concetto di legalità è una contraddizione in termini. E sarebbe inutile stare a spiegarne, per l’ennesima volta, il perché. Di conseguenza, consiglierei al partito di mutare l’oggetto della polemica con il comune e con la sua giunta: con uno sforzo mentale minimo, FI potrebbe trovare decine di argomentazioni per tentare di mettere all’angolo Cialente & Co. Ovvio, prima FI dovrebbe cambiare nome, presidente, organizzazione e membri.

Presentazione SAR

Pubblicato: 27 settembre 2013 in Uncategorized

Lunedì 7 ottobre si terrà, alle ore 10.30 nell’aula A del Dipartimento di Storia, Culture, Religioni, sezione di Studi Storico-Religiosi (II piano della Facoltà di Lettere e Filosofia, corridoio centrale, ingresso a sinistra della Biblioteca), la presentazione della Laurea in Storia, Antropologia, Religioni (SAR)Image

L'Aquila 1961

Passeggiando per un mercatino dell’usato a Roma, mi sono imbattuto in questa cartolina di L’Aquila, datata 1961 (foto di Agnese Carinci)

Immagine  —  Pubblicato: 25 settembre 2013 in Uncategorized

Quando si erano presentati avevano suscitato la mia ilarità. Adesso è uscito questo video che li mostra in tutto il loro “splendore” durante la lettura della condanna definitiva del loro leader.
Spero almeno siano ben pagati.

Video  —  Pubblicato: 4 agosto 2013 in Attualità, Politica
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Introduzione  

Lo scopo di questa relazione è quello di delineare, attraverso la testimonianza lasciataci da Jean de Joinville, la figura di Luigi IX non come santo, né come re e cavaliere, ma bensì come uomo. Nella sua Vita di san Luigi, dedicata a Luigi di Navarra e terminata nel 1309, Joinville ci dona dei bellissimi ritratti di un Luigi IX catturato nei suoi rapporti familiari, nei quali si delinea il suo carattere, il suo comportamento ed i suoi affetti nei confronti della madre, della moglie, dei fratelli e dei figli. Ma ancora più interessante è, a mio modesto parere, la descrizione del rapporto del tutto particolare tra l’autore del testo ed il suo presunto protagonista (nel libro di Joinville sembrano piuttosto due i protagonisti: il re e l’autore stesso): Joinville è infatti “uno dei suoi amici più intimi[1]”, e grazie a questa amicizia possiamo notare tutte le caratteristiche “umane” del re, quasi sempre esaltate ma, a volte, anche criticate dal siniscalco della Champagne.

Di certo non è semplice delineare un profilo dell’uomo san Luigi: alcuni storici, come sottolinea Le Goff, hanno parlato di una riservatezza che rende quasi impossibile ricavare la sua intimità e la sua personalità; tuttavia “il pensiero intimo, la vita interiore e l’evoluzione della personalità di Luigi IX ci sono rivelati dal suo confessore, dai suoi biografi e agiografi[2]”. Lo storico francese introduce, in opposizione al termine “riservatezza”, l’espressione “senso della misura”, indicando con esso quel controllo del corpo e dei gesti fissato dal canonico Ugo di San Vittore e adottato, alla fine del XII secolo, anche dai laici. In questo senso della misura san Luigi resta comunque una figura al limite tra un codice di condotta promosso dai nuovi ordini mendicanti e un codice di condotta propriamente regale, e questo danzare sul bordo rappresenta sia il grande conflitto interno vissuto dal re santo (secondo Le Goff risolto perfettamente nel far agire concordemente morale e politica) che il motivo principale che ci rende difficoltoso delineare la sua personalità. Questo compito ci è inoltre assai difficile perché i suoi biografi e agiografi tentarono sempre di mettere in primo piano la sua santità, cosa a cui non sfugge neanche Joinville, e questi tratti di santità si ritrovano spesso in molti personaggi a lui coevi e in alcuni predecessori della dinastia capetingia come Roberto il Pio, Luigi VII e Filippo Augusto[3], rendendo così difficile intuire se si sia in presenza di particolarità reali o di stereotipi.

Per fortuna Joinville ci viene in soccorso, mostrandoci alcune sfaccettature del re che ci permettono di ricavare qualcosa della sua personalità, anche grazie all’uso di aneddoti che conferiscono verosimiglianza alla sua narrazione; ma prima di addentrarci nella descrizione del re-uomo fatta dal siniscalco della Champagne è necessario spendere qualche riga per comprendere meglio la nostra fonte.

Jean de Joinville e il Livre des saintes paroles et des bons faiz de nostre saint roy Looÿs[4].

Chi era Jean de Joinville? Joinville nasce probabilmente nel 1224, quando Luigi IX aveva già dieci anni. A differenza della maggior parte degli agiografi e dei biografi del re santo, Joinville è un laico: cresce nella corte del suo signore, Tebaldo IV di Champagne, e a diciotto anni diventa siniscalco della Champagne. Incontrò per la prima volta il re quando era ancora un giovane scudiero, il 24 giugno 1241 a Saumur in occasione dell’armatura a cavaliere del fratello di san Luigi, Alfonso conte di Poitiers, e lo seguì nella crociata in Egitto del 1248, partendo da Marsiglia e raggiungendo il re a Cipro. Era un signore di media importanza, non faceva parte della stretta cerchia dei consiglieri “istituzionali” del re e non possedeva enormi ricchezze, tanto che prima di partire dovette dare in garanzia gran parte delle sue terre. Rimase con san Luigi fino al 1254, quando tornarono in Francia, e rifiutò di prender parte alla spedizione del 1270 a Tunisi, nella quale il re morì. Nel 1282 fu ascoltato dall’arcivescovo di Rouen, Guillame de Flavacourt, e dal domenicano Jean de Samois come testimone nel corso dell’inchiesta per la canonizzazione di san Luigi, ma ormai era già uscito dalle grazie dei successori del suo santo amico. In occasione dell’elevazione del corpo di Luigi IX a Sanit-Denis, il 25 agosto 1298, fu però indicato dal frate domenicano che guidava la cerimonia come testimone fondamentale per la sua canonizzazione. Morì il 24 dicembre del 1317, alla veneranda età di 93 anni.

Il Livre des saintes paroles et des bons faiz de nostre saint roy Looÿs gli fu commissionato dalla regina Jeanne della Champagne e di Navarra, moglie di Philippe IV il Bello. L’opera è però dedicata a suo figlio Luigi, il futuro Luigi X le Hutin, re di Francia dal 1314, in quanto Jeanne morì a Vincennes il 2 aprile 1305, quattro anni prima che Joinville avesse terminato la stesura del suo testo. Essendo stato a stretto contatto con Luigi IX, soprattutto durante i sei anni della sua prima crociata, Joinville è testimone oculare di gran parte del suo racconto, e solo per l’infanzia del re e per la sua morte si basa su attestazioni di terzi. Per quanto concerne la crociata di Tunisi e la morte del sovrano, suo referente è il conte Pierre d’Alençon, settimo figlio di san Luigi, nato nel 1251 nei pressi di Acri e morto nel 1284, ben 25 anni prima che Joinville completasse il suo volume, il che rafforza il ruolo della memoria nell’opera del siniscalco.

La memoria è il motore principale di questo libro, ed è una memoria che privilegia non tanto i contenuti quanto la storia. Nonostante non segua in maniera costante un ordine cronologico, la parte principale e più corposa del libro, quella dedicata alla crociata, è un vero e proprio racconto: molti storici eminenti, a partire da Antoine Pierre nel 1547, passando per Natalis de Wailly nel 1874 fino all’edizione da me utilizzata, quella di Armando Lippiello del 1999, hanno preferito utilizzare il titolo Storia di san Luigi piuttosto che Vita di san Luigi.

Senza dilungarmi troppo sulla natura generale di quest’opera, di cui del resto già tanto è stato scritto, passerò ora a descrivere ciò che da essa è possibile evincere sulla personalità di san Luigi. Credo che la personalità di un uomo sia costituita in primo luogo dal suo circuito di affetti, quindi ho pensato di soffermarmi innanzitutto sul rapporto tra san Luigi e i suoi familiari (madre, moglie, fratelli e figli), per poi concludere descrivendo quelle caratteristiche della sua personalità che scaturiscono dal racconto del forte legame di amicizia tra il re e il siniscalco.

Luigi e la madre.

La figura di Bianca di Castiglia è stata fondamentale nel regno di Luigi IX. Nata nel 1188 da Alfonso VII di Castiglia e Eleonora d’Inghilterra, sposò a dodici anni Luigi VIII da cui ebbe undici o dodici figli, la maggior parte dei quale morirono in tenera età. Dal periodo di minorità di Luigi sino alla sua morte, la regina ebbe sempre un fortissimo ascendente sul figlio, sia nella sua formazione che nelle sue scelte politiche. Citando Le Goff “[…] la Francia, fino al 1252, anno della morte di Bianca di Castiglia, fu governata dalla coppia Luigi/Bianca, percepita proprio come una coppia[5].” Del resto Luigi aveva perduto suo padre, Luigi VIII[6], quando aveva appena 12 anni, ovvero nel 1226. Tuttavia il potere fu sempre nelle mani del re, e non vi fu una diarchia alla testa del regno di Francia[7].

Di Bianca di Castiglia e del suo rapporto con Luigi parlano tutti i suoi biografi e agiografi, da Geoffroy de Beaulieu a Guillame de Saint-Pathus, risaltando le qualità della prima e la sua importanza nel plasmare la figura di san Luigi; ovviamente anche Joinville spende delle parole per sottolineare questo rapporto madre – figlio. La grande influenza di Bianca sull’educazione “laica” tanto quanto religiosa è descritta in questo passaggio:

Quanto all’anima del re, Dio la protesse attraverso la buona educazione che ricevette da sua madre, che gli insegnò a credere e ad amare Dio e che lo circondò di uomini di religione. […] la regina gli faceva ascoltare tutte le Ore e dei sermoni i giorni di festa. […] sua madre gli aveva fatto capire che avrebbe preferito che fosse morto piuttosto che avesse commesso un peccato mortale[8].

Anche Bianca di Castiglia era pervasa da un fortissimo senso religioso. La sua grande devozione è palesata nel racconto del banchetto di Saumur, durante il quale era presente un giovane che si diceva fosse il figlio di santa Elisabetta di Turingia: la regina baciò questo giovane sulla fronte per emulare le gesta della santa[9].

L’influsso della madre sulle decisioni di san Luigi è dimostrato anche nelle richieste di contributi a baroni e cavalieri che seguirono la vittoria contro Enrico III, nelle quali si dimostrò giusto ed equilibrato proprio perché

[…] egli agiva così dietro consiglio della sua buona madre che era con lui, consiglio che egli seguiva[10].

L’amore di Bianca per Luigi è in primo luogo l’amore di una madre per un figlio, un amore che sembra superare i ruoli istituzionali e le decisioni politiche. Le Goff afferma che solo in un’occasione madre e figlio si scontrarono: quando il re santo guarì dalla grave malattia che aveva indotto molti a crederlo già morto, Bianca mostrò tutta la sua gioia; ma nella stessa circostanza mostrò un enorme dolore dinanzi la sua scelta di farsi crociato, “lo stesso dolore che se lo avesse visto morto[11].” Qui, secondo lo storico francese, non c’è però solo il dolore di una madre che teme di non rivedere più il figlio: c’è anche la preoccupazione per l’amministrazione del regno, un’amministrazione che è diventata più complessa sotto Luigi IX e che spinge l’interesse politico ad interagire con l’affetto materno.

Nel racconto della crociata resoci da Joinville, Bianca di Castiglia compare la prima volta come protagonista quando san Luigi convoca un consiglio per decidere se tornare in Francia o restare in Egitto: è proprio la madre del sovrano che invoca il ritorno del figlio, lo prega con tutte le sue forze[12],  perché a suo avviso il regno è in pericolo.

All’inizio dell’estate del 1253, dunque durante la permanenza a Sayette, Luigi è informato della morte della madre. Questa era in realtà deceduta nel novembre del 1252, ma, come affermato da Lippiello, dobbiamo tenere in conto il tempo necessario affinché una notizia giungesse all’epoca dalla Francia alla Terra Santa. Joinville ci descrive un san Luigi moralmente devastato da questa notizia:

Ne mostrò una così grande disperazione che per due giorni fu impossibile parlargli. […] Quando arrivai davanti a lui nella sua camera, dove era solo, e che mi vide, stese le bracci e mi disse: “Ah! Siniscalco, ho perso mia madre!”[13].

Qui la reazione del siniscalco è abbastanza stupefacente: la sua prima affermazione è infatti un quasi glaciale “ella doveva pur morire[14]”, e invece di consolare il sovrano per la grave perdita lo rimprovera per non nascondere meglio i suoi sentimenti. Joinville vede il pianto del sovrano come un segno di debolezza di fronte ai nemici, e non considera questa dimostrazione d’amore, seppur doloroso, come qualità morale del sovrano, ma come un difetto da correggere, sovvertendo di fatto il topos del grande che mostra la sua umanità attraverso l’abbondanza di lacrime e le dimostrazioni di dolore. A proposito di questo avvenimento, Le Goff  afferma che, proprio in quanto l’atteggiamento del sovrano sembra la pura riproduzione di un modello di comportamento medievale (citando a proposito il Carlomagno della Chanson de Roland) è impossibile determinare l’autenticità di tali lacrime[15].

Come vedremo nel paragrafo successivo, sarà opposto il giudizio rispetto al rapporto di Luigi con moglie e figli: qui è accusato di dimostrare troppo affetto per la madre, lì di essere troppo freddo e di non interessarsi abbastanza.

 

Luigi e la moglie.

Il matrimonio tra Luigi IX e Margherita di Provenza, primogenita del conte di Provenza Raimondo Beringhieri V, ebbe luogo a Sens il 27 maggio 1234. Luigi aveva vent’anni e si trovava, come evidenzia Guglielmo di Nangis, al suo ottavo anno di regno[16]: un matrimonio dunque un po’ tardo per un re medievale, ritardo che Le Goff mette in relazione con la predominante figura di Bianca di Castiglia, che dopo il matrimonio avrebbe potuto perdere parte del suo ascendente sul figlio.

Come modello di matrimonio medievale, anche quello di Luigi con Margherita fu un matrimonio prettamente politico, in quanto da una parte rafforzò ulteriormente la presenza della monarchia in Provenza e nel sud della Francia, e dall’altra, grazie ai matrimoni delle altre figlie di Raimondo Beringhieri, la posizione della monarchia francese nei confronti di quella inglese (fu molto importante a questo riguardo il forte e reciproco affetto tra Margherita e sua sorella Eleonora, che nel 1236 sposa Enrico III d’Inghilterra). Sottolineare la funzionalità politica di questo avvenimento è di fondamentale importanza per comprendere il rapporto umano tra il re e la sua consorte: il loro matrimonio fu tutt’altro che uno sposalizio tra innamorati. “Un matrimonio d’amore è privo di senso nel medioevo[17]”. Questo però non vuol dire che Luigi non provasse assolutamente niente nei confronti della moglie: l’elevato numero di figli non può essere solo collegato agli interessi dinastici, e il controllo sulla vita a letto dei coniugi da parte di Bianca di Castiglia sembra essere legato a timori di tipo morale. Del resto la carne è carne.

Nel racconto di Joinville il lato politico dell’accordo è preceduto, nelle parole di san Luigi, da una dichiarazione che sottolinea l’importanza che per lui aveva la famiglia:

Poiché abbiamo per mogli due sorelle e i nostri figli sono cugini di primo grado, è molto importante che ci sia pace tra di noi.[18]

 

A me sembra però che le parole successive, ovvero la spiegazione del suo gesto come mossa per rendere il re d’Inghilterra suo vassallo, siano molto più significative per lo stesso Luigi IX. Del resto Joinville non da un buon giudizio del rapporto tra il re e sua moglie. Durante il racconto della crociata, più precisamente durante la permanenza a Sayette (Sidone, luglio 1253 – febbraio 1254), il siniscalco ci racconta l’arrivo, dopo la nascita di Blanche avvenuta a Jaffa, di Margherita di Provenza. Luigi è intento ad ascoltare la messa, e non si reca incontro alla moglie, cosa che invece viene fatta da Joinville. Quest’ultimo prende a pretesto quest’episodio per affermare che:

[…] erano già cinque anni che ero presso di lui e non aveva parlato né della regina né dei suoi figli, che io sappia, con me o con altri; mi sembra che non sia una buona maniera di comportarsi, ignorare così la propria moglie e i propri figli.[19]

In questo passo e in questi giudizi il rapporto tra Joinville e san Luigi sembra ribaltarsi: in quasi tutto il suo racconto è il secondo che funge da maestro, di religione e di morale. Ma quando si parla di famiglia, i giudizi del siniscalco si fanno più aspri, ed il sovrano viene apertamente accusato di scarsità d’affetto nei confronti dei suoi cari (mentre è il contrario per la madre[20].) Joinville sembra parteggiare apertamente per Margherita di Provenza, di cui apprezza la fede cristiana e il senso dell’umorismo[21].

In occasione della morte di Bianca di Castiglia, il racconto del siniscalco si sofferma nel dipingere il difficile rapporto tra la regina e la madre di suo marito. Afferma che la seconda trattò molto duramente la prima, impedendole anche di dormire nello stesso letto di Luigi[22]. Riferisce di un episodio nel quale Margherita, a seguito di complicanze da parto, si trovò in serio pericolo di vita, e Bianca la privò del conforto del marito aggravando ancora di più le sue condizioni[23]. Tuttavia descrive anche la disperazione di Margherita alla notizia della morte di Bianca, ma questa è funzionale alla descrizione della sua devozione verso il marito, in quanto non si disperò tanto della morte della suocera quanto del dolore di Luigi[24]. Questi passaggi sul rapporto tra suocera e nuora sono molto interessanti perché per la prima volta, e a differenza dei biografi e agiografi di san Luigi, Bianca non compare come la madre pia e saggia del re ma assume una connotazione fortemente negativa. Le Goff, in merito all’episodio della malattia di Margherita, utilizza il termine odiosa[25], a mio avviso non a tutti i torti; quello che mi colpisce ancora di più è vedere come Joinville parteggi apertamente per la nuora, prendendone le difese a spada tratta e non esitando a “calunniare” la defunta regina.

Luigi e i fratelli.

Nelle pagine di Joinville leggiamo di un re che è molto affezionato ai fratelli. Li aveva resi cavalieri e si era occupato di loro affidandogli posizioni di grande potere politico anche attraverso un’attenta strategia matrimoniale. I suoi fratelli lo avevano seguito in Terra Santa, e proprio in Egitto il conte d’Artois (così si riferisce Joinville a Roberto, fratello di Luigi e più giovane di appena due anni, cugino dell’imperatore Federico II grazie al matrimonio con Matilde di Brabante), durante la battaglia del martedì grasso (o battaglia della Mansurah), trovò la morte. All’annuncio di questa morte da parte del frate Henri de Ronnay assiste anche il siniscalco di Champagne, che sottolinea come

Grosse lacrime cominciarono allora a cadergli dagli occhi (del re).[26]

 

Come abbiamo già visto in occasione della morte di Bianca di Castiglia, Joinville ci tiene a sottolineare le reazioni emotive di san Luigi. Anzi, citando Lippiello, sono osservazioni e dettagli come questi […] che rendono l’opera di Joinville unica e moderna[27].

Ne emerge dunque un rapporto che non solo è ricco di interessi dinastici e familiari, ma è anche ricco di amore e di affetto: nonostante secondo molti (in primis Matteo Paris) il comportamento in battaglia di Roberto fu tutt’altro che eroico, Luigi non smise mai di considerarlo un martire del cristianesimo.

L’11 febbraio del 1250, quando l’altro suo fratello Charles (Carlo d’Angiò, 1226-1285), futuro re di Sicilia nel 1265 ma allora solo conte d’Anjou, si trovò in seria difficoltà sul campo di battaglia, il re

Cavalcò tra le truppe di suo fratello, spada in pugno, e si lanciò così avanti tra i turchi che gli fu gettato del fuoco greco sulla groppiera del cavallo.[28]

 

Anche in questa occasione a mio avviso la foga con la quale il re si getta tra i nemici per salvare la vita del fratello sta ad indicare un qualcosa in più della semplice attenzione per la sorte della dinastia.

Tuttavia dopo la vittoria del venerdì il campo fu invaso dalla malattia e non si riuscì a trovare una soluzione al blocco navale imposto dai musulmani lungo il Nilo, blocco che impediva ai rifornimenti alimentari di giungere al campo dell’esercito del re. Una tregua si rivelò necessaria e, stando alle parole di Joinville, una delle condizioni proposte dai consiglieri del re fu quella di lasciare in ostaggio uno dei suoi due fratelli[29]. Questo sicuramente non sembra un gesto d’affetto, anche se a fare la proposta furono i consiglieri, non Luigi in persona; ma quanta autonomia avevano questi? È possibile ipotizzare che il re non fosse a conoscenza di questa clausola? A mio modesto parere, riscontrando l’autorità con la quale Luigi IX era solito assumere le sue decisioni e il suo controllo su ogni forma di emanazione del potere regio, no. Si potrebbe allora ipotizzare che il re fosse si legato affettivamente con i suoi fratelli, ma che comunque questo affetto non andava oltre ciò che poteva permettergli il suo ruolo di re di Francia: citando Le Goff, in san Luigi “Il sentimento familiare si è sempre intrecciato in lui col senso politico[30].”

Questo è dimostrato anche dal fatto che, dopo la sconfitta dell’esercito cristiano e la cattura del re e delle principali personalità del regno di Francia partecipanti alla crociata, il conte di Poitiers (Alfonso, 1220-1271, investito nel 1241 da Luigi IX della contea di Poitiers, poi anche conte di Tolosa dopo il matrimonio con Giovanna di Tolosa) fu effettivamente trattenuto dai saraceni come ostaggio, in attesa del pagamento della somma di 200000 lire, prima trance del pagamento di 400000 lire che Luigi IX promise, insieme alla restituzione della città di Damietta, come riscatto. Ma quando a pagamento avvenuto il fratello del re fu liberato, fu grande la gioia del sovrano e di tutto il suo seguito, segno che comunque i due fratelli erano legati da un grande affetto.

Tra i suoi fratelli comunque era il defunto conte d’Artois quello cui era più legato. Nel viaggio da Damietta ad Acrì si confida con Joinville sul rapporto con i suoi fratelli, e così il siniscalco riporta le sue parole:

[Il re] Rimpiangeva molto la morte di suo fratello, il conte d’Artois, e diceva che questi non avrebbe evitato, se non a malincuore, la sua compagnia, come faceva invece il conte di Poitiers, ma che sarebbe venuto a trovarlo perfino sulle galere.

Si lamentava con me anche del conte d’Anjou, che era a bordo della nave e non gli faceva alcuna compagnia.[31]

Sempre in questo passaggio si legge di un re che è anche educatore di suo fratello. Poco dopo la loro partenza da Damietta si adirò molto con il conte d’Anjou perché, nonostante i lutti che avevano dovuto subire, si era subito messo a giocare ai dadi[32].

Nonostante ciò, nel racconto di Joinville è descritto anche l’affetto dei fratelli nei confronti di Luigi: nel momento della loro partenza da Acri, scrive Joinville

Tutti e due i fratelli si raccomandarono molto a me di vegliare sul re […] Quando il conte d’Anjou vide che era giunto il momento di imbarcarsi sulla nave, mostrò un tale dolore che tutti si meravigliarono. [33]

Luigi e i figli[34].

Luigi e Margherita ebbero 11 figli, sei maschi e cinque femmine. Il primo di essi nacque nel 1240, dunque sei anni dopo il matrimonio, scatenando una sorta di panico tra il seguito del re per la paura di una presunta sterilità di Margherita. La nascita del primo figlio venne dunque vista come una specie di miracolo, che Le Nain de Taillemont attribuisce a san Tebaldo: Le Goff ci tiene a sottolineare però che la nascita miracolosa del primogenito di un re di Francia è uno stereotipo medievale.

Non molto si trova nel libro di Joinville sul rapporto tra Luigi IX e i suoi figli. Questo molto probabilmente perché il racconto è incentrato sulla crociata, dunque un periodo nel quale il re era assorto in ben altri compiti che quello di padre. Tuttavia, nelle pagine conclusive, troviamo la descrizione di un Luigi educatore e dolce con i figli: nel capitolo 139 Joinville ci parla di come Luigi

Prima di coricarsi nel suo letto, faceva venire i suoi figli davanti a lui e raccontava loro le gesta dei buoni re e dei buoni imperatori e dicevano che dovevano prendere esempio da tali uomini.[35]

Sempre nello stesso passaggio il siniscalco ci racconta di come Luigi fornisse ai propri figli anche dei brutti esempi, in modo da insegnargli i comportamenti da evitare, e un’adeguata formazione religiosa, insegnando loro a dire le preghiere e ad ascoltare la messa[36].

San Luigi ricopre il ruolo di educatore per tutto il libro di Joinville, e non soltanto per i figli: lo vediamo dare esempi al siniscalco stesso, ai soldati, ai fratelli e agli stessi membri del clero. Non sorprende dunque che alla fine del suo volume Joinville abbia deciso di inserire gli “Insegnamenti” a suo figlio Filippo, anche se in realtà gli insegnamenti scritti da Luigi IX furono due.

Secondo alcuni sarebbero stati prodotti da san Luigi sul letto di morte a Cartagine, ma è molto più probabile che essi siano stati composti nel 1267 o meglio nel 1270, poco prima della sua partenza per la seconda crociata. Altri addirittura sostengono che siano stati scritti di propria mano dal re[37], che ne dedica uno al figlio Filippo (1245-1285), il futuro Filippo III, e l’altro alla figlia Isabella (1242-1271), che nel 1255 sposò Tebaldo V conte di Champagne e re di Navarra. Entrambi questi testi sono ricchi di consigli su come i figli del re debbano comportarsi, e quelli dedicati al figlio rappresentano in molti passaggi un vero e proprio Specchio dei principi. Ma oltre ai suggerimenti sulle linee di condotta, negli insegnamenti sono presenti alcuni passaggi che possono esserci utili per delineare la figura del re-uomo: sono quei passaggi in cui Luigi IX parla da padre, e si rivolge ai figli esprimendo il suo affetto nei loro confronti.

Ma andiamo con ordine e vediamo come Joinville ci parla della genesi di questi insegnamenti. Siamo a cinque capitoli dalla fine del Livre quando il siniscalco ci descrive un re sbarcato a Tunisi in pessime condizioni di salute, provato dalla vecchiaia e colpito dalla dissenteria. Anche Filippo è ammalato quando viene chiamato dal padre, cosciente dell’imminente fine, per ricevere quegli insegnamenti che, sempre secondo Joinville,” furono scritti dal re con la sua santa mano, come viene detto[38].” Solo a questo punto il siniscalco trascrive, in francese[39], i quattordici paragrafi che costituiscono gli Insegnamenti. Il documento si apre con le parole “Bel figlio”: già qui mi sembra di avvertire un tono dolce e paterno più che un tono di re. A questo incipit seguono una serie di consigli su come accettare Dio e seguire i precetti del cristianesimo, poi dei consigli per amministrare rettamente il regno, per essere sempre in compagnia di persone sagge, giuste e leali, lealtà che raccomanda anche per l’amministrazione della giustizia, e che deve essere comunque accompagnata dalla flessibilità; gli consiglia di restituire beni in suo possesso ma che appartengono ad altri, lo mette in guardia affinché i suoi sudditi vivano in pace e con rettitudine, lo esorta a tenere sempre in favore le buone città, a rispettare e tutelare la Chiesa ed i suoi beni; gli consiglia il rispetto dei genitori (qui torna il tema dell’importanza della famiglia) e l’impegno per la pace, di avere dei buoni amministratori, di combattere eresie e bestemmie e di vigilare sempre sulle spese di corte; infine chiede l’intercessione per la sua anima e gli concede una commovente benedizione.

Anche se delle dichiarazioni esplicite d’affetto e d’amore si trovano solo al principio e alla fine degli Insegnamenti, il tono dei quattordici paragrafi è un tono dolce, un tono che in ogni modo trasuda amore paterno.

Un aspetto interessante degli Insegnamenti a Filippo III è che in essi, più precisamente all’undicesimo punto, Luigi fa un riferimento esplicito a suo nonno Filippo Augusto: è la seconda volta che troviamo nel libro di Joinville san Luigi che cita suo nonno[40]. Sarebbe interessante approfondire ulteriormente il rapporto tra Luigi e Filippo Augusto, ma Joinville non ne parla[41].

È altrettanto interessante notare come Luigi sia interessato ai figli, ma solo quando questi diventano adulti: non c’è alcun accenno ai figli più piccoli, li si ritrova solo quando devono apprendere dal padre le linee di condotta da adottare in quanto appartenenti alla famiglia reale, di conseguenza in relazione al loro ruolo politico.

 

Luigi e il siniscalco.

Come già affermato in precedenza, il rapporto tra l’autore del libro ed il suo protagonista è del tutto eccezionale. Molto si può evincere tra le righe della Storia, e sono molte le sfaccettature del loro rapporto: prima di figurare come amico e come caro, Luigi compare come maestro di Joinville. In primo luogo i suoi sono insegnamenti teologici: tramite esempi e racconti, il re santo cerca di mostrare al siniscalco la condotta del buon cristiano indicata dalla dottrina:

Nelle sue conversazioni con me il santo re si sforzò, con tutto il suo potere, di farmi credere fermamente nella dottrina cristiana così come ci è stata data da Dio.[42]

 

I capitoli VIII e IX in particolare sono interamente dedicati alla concezione della fede da parte di Luigi, una fede a cui bisogna credere senza porsi troppe domande, così come non ci si pongono domande sul nome del proprio padre. Quella delineata dal re è un’obbedienza[43] cieca, un abbandono totale ai precetti apostolici e dottrinari come sono cantati ogni domenica durante il Credo[44]. Alla disobbedienza è preferibile il martirio e la morte, ed è anzi proprio nei momenti in cui il buon cristiano è più tenacemente tentato dal diavolo a non seguire la dottrina che egli deve mostrare la propria forza nella fede.

Dagli insegnamenti e dalla devozione del re possiamo apprendere anche alcuni aspetti della sua quotidianità che sono delineati solo nelle pagine del siniscalco. Così nel capitolo XI possiamo leggere il rapporto tra il protagonista e la preghiera:

[…]tutti i giorni aveva modo di ascoltare le Ore accompagnate dal canto, una messa di requiem senza canto e poi, secondo il caso, la messa del giorno o l’ufficio del santo accompagnati dal canto. Si riposava sul suo letto tutti i giorni, dopo aver mangiato; e dopo aver dormito e riposato diceva, in privato nella sua camera insieme ad uno dei suoi cappellani, l’orazione per i defunti prima di ascoltare i vespri. La sera ascoltava la compieta.[45]

 

Ciò che emerge da queste righe sono giornate scandite dalla preghiera, come fosse un monaco[46], una preghiera che tra l’altro è sempre collettiva, come se dalla sua partecipazione il suo seguito dovesse trarre esempio e insegnamento di rettitudine cristiana.

Gli ideali cristiani furono sempre al centro dell’azione legislativa e giurisdizionale del re; ed è proprio dalla descrizione del re intento a risolvere questioni giudiziarie che possiamo trarre altri aspetti significativi delle sue abitudini, come quella di sedersi a terra:

Quando il re ritornava dalla chiesa ci faceva chiamare e, seduto ai piedi del suo letto, dopo averci fatto sedere intorno a lui, ci domandava se ci fosse qualche caso che potesse essere evaso solo da lui.[47]

 

L’atto di sedersi a terra è riportato anche da Salimbene da Parma, quando ci descrive il re in compagnia di francescani intenti ad ascoltare una messa ad Auxerre[48]. Ancora più belle e interessanti sono le descrizioni di Luigi IX intento a risolvere cause giudiziarie nel bosco di Vincennes e nel giardino di Parigi. In quest’ultimo caso, oltre a sottolineare la sua postura, Joinville torna a descrivere il semplice abbigliamento del re:

[…]vestito di una cotta di vestito di lana, di una sopravveste di lana senza maniche, con un mantello di taffettà nero allacciato al collo, molto ben pettinato, senza cuffia, e con un cappello con piume di pavone bianco sulla testa.[49]

 

Amministrare la giustizia seduto a terra e con abiti semplici: non si può pretendere più umiltà per un re di Francia![50]

Nella descrizione dataci da Joinville dell’amministrazione della giustizia da parte di san Luigi emerge anche un altro particolare, ovvero quello di un re che parla: egli si rivolge personalmente a chi conversa con lui, e corregge nel caso di errore dei suoi portavoce. La parola per san Luigi è molto importante, ed è una parola che è pregna del suo tempo: egli si esprime, come abbiamo già accennato, tramite insegnamenti, ama utilizzare degli exempla e ricorre spesso ai metodi della disputazio universitaria, tipica dell’insegnamento della teologia nell’Università di Parigi a lui tanto cara.

Gli ideali cristiani furono, come già detto, sempre al centro del pensiero e dell’azione di Luigi IX, e spesso questi si trasformarono in azioni di moralizzazione della società in cui viveva: in Francia queste si tradussero nelle Grandi Ordinanze, in Terrasanta in alcune iniziative che ci vengono descritte da Joinville, come nel caso dei giorni successivi alla presa di Damietta. Dopo questa vittoria infatti seguì un periodo di generale lassismo morale, causato anche dalle ricchezze accumulate con la vittoria: lo spreco di beni e la prostituzione erano all’ordine del giorno, e così, dopo il periodo di prigionia in seguito alla sconfitta della Mansurah:

Successe […] che il re congedasse molta gente dal suo servizio. E gli domandai perché avesse fatto questo; mi disse che aveva saputo con certezza che, alla distanza a cui si lancia un sasso dal suo padiglione, quelli che aveva congedato avevano installato il loro bordello, nonostante l’esercito attraversasse il periodo di più grande sventura.[51]

Ci sono però dei passaggi nel libro di Joinville che mostrano come, nonostante la sua ammirazione per il sovrano, il loro rapporto rimanesse sempre legato ai vincoli e alle formalità dei loro ruoli socio-istituzionali. Prima della partenza per la crociata d’Egitto, dunque quando ancora tra i due non si stringe l’amicizia, il re impone ai baroni il giuramento di fedeltà e lealtà ai suoi figli in caso della sua morte; ma quando chiede a Joinville di fare lo stesso, lui si rifiuta perché non era suo vassallo[52].

È durante la crociata, e soprattutto durante la permanenza ad Acrì (maggio 1250 – marzo 1251), che nasce il legame affettivo vero e proprio tra san Luigi e Joinville. Appena ripreso dalle fatiche e dalle malattie che lo avevano colpito durante le battaglie, il siniscalco si recò in visita al sovrano, e così ci descrive la reazione di quest’ultimo:

Mi rimproverò e mi disse che non avevo agito bene ad aspettare così tanto prima di fargli visita; mi ordinò, se avevo a cuore il suo affetto, di mangiare insieme a lui tutti i giorni, mattino e sera, fino a che non avesse deciso cosa fare, tornare in Francia o restare.[53]

 

Legato alla decisione di tornare in Francia o restare in Terra Santa è un altro episodio a mio avviso significativo nella descrizione del rapporto tra re e siniscalco: durante il consiglio convocato a tal proposito da san Luigi, Joinville dichiarò che sarebbe stato opportuno restare per almeno un anno ancora, perché il sovrano aveva speso solo il denaro ricavato dalla decima datagli dal clero, mentre se avesse speso i suoi denari sarebbe stato in grado di richiamare altri cavalieri dalla Francia. Nel pranzo successivo al consiglio, il re fece sedere Joinville al suo fianco, ma senza rivolgergli parola. Leggiamo allora l’apprensione del siniscalco, preoccupato di aver offeso Luigi con le sue osservazioni:

Non mi parlò affatto per tutta la durata del pranzo; non era questa sua abitudine, perché prestava sempre attenzione a me mentre mangiavamo. Pensavo che fosse veramente arrabbiato con me perché avevo detto che non aveva ancora speso niente di suo mentre avrebbe dovuto farlo con generosità.[54]

Joinville non sembra solo preoccupato, ma anche un po’ offeso per le mancate attenzioni del sovrano, tanto da pensare che se il re non avesse seguito il suo consiglio se ne sarebbe andato dal principe di Antiochia, a cui era anche legato affettivamente, in attesa del ritorno di una crociata. È proprio mentre è assorto in tali pensieri che il re gli si fa incontro, prendendolo alle spalle e sorprendendolo. Ma lasciamo parlare Joinville:

Mentre ero così, il re venne ad appoggiarsi sulle mie spalle e mi tenne le sue mani sulla testa. Pensai che fosse monsignor Philippe de Nemours […] Per disavventura, girando la testa, la mano del re mi passò davanti al viso e mi resi conto, da uno smeraldo che aveva al dito, che si trattava del re.[55] 

A questo gesto, che è sicuramente un gesto d’affetto, segue un dialogo tra i due nel quale il re rassicura il siniscalco e lo ringrazia per il suo consiglio, rendendolo più tranquillo e sicuro rispetto a tutti coloro che lo avevano attaccato durante il consiglio.

Proprio quando Luigi decise di restare e proseguire la crociata troviamo il secondo momento nel quale i ruoli socio-istituzionali prendono il sopravvento rispetto ai legami affettivi. Impegnato nella ricerca di cavalieri per la guerra, il sovrano imbastisce una contrattazione con il siniscalco: questi viene ingaggiato per duemila lire, da ripartire tra lui e altri tre cavalieri. Nonostante il carattere formale della contrattazione, è indicativo come Joinville ci tenga a sottolineare l’affetto che lo legava al re, tanto da far iniziare il loro dialogo con la frase di Luigi: “Siniscalco, sapete che vi ho sempre voluto bene[56].”

Il legame affettivo sembra prendere il sopravvento durante una successiva negoziazione tra i due che ebbe luogo durante il periodo di permanenza a Cesarea (marzo 1251 – maggio 1252): il precedente contratto sarebbe scaduto durante la Pasqua, quindi il re chiese a quali condizioni Joinville sarebbe rimasto per un altro anno. Il siniscalco domandò la stessa quantità di denaro che aveva chiesto un anno prima, ma poi aggiunse:

“Poiché voi vi arrabbiate quando vi si domanda qualche cosa, voglio che voi conveniate con me che se vi domando qualche cosa durante tutto questo anno, voi non vi arrabbierete; e se voi mi rifiutate quello che chiedo, neanche io mi arrabbierò”.[57]

Qui è l’amicizia che prende il sopravvento, ed il contratto tra cavaliere e sovrano sembra tramutarsi in un patto tra amici (sebbene di rango e ruolo differenti). Ma ancora più interessante per delineare il profilo di Luigi IX come uomo è la reazione di quest’ultimo alla proposta di Joinville:

[…] Quando udì questo, scoppiò a ridere fragorosamente e mi disse che mi avrebbe ingaggiato a queste condizioni; mi prese per mano e mi portò verso il legato e verso i suoi consiglieri e ripeté loro l’affare che avevamo fatto.[58]

 

Ecco che compare, per la prima volta durante la narrazione della crociata, un re sorridente, un re che ama ridere. Del resto avevamo già incontrato, con l’accenno alla gelosia tra Robert de Sorbon e il siniscalco, un re che ama anche divertirsi: questa è sicuramente una caratteristica peculiare di san Luigi[59]. Così, mentre si trovavano sulla spiaggia di Acri dopo un periodo di permanenza a Sayette, troviamo di nuovo Luigi che ride fragorosamente ad una battuta di Joinville sulla sua santità[60]. Il siniscalco ama raccontare aneddoti divertenti, e non solo riguardanti il re: nel capitolo 113 sono descritti i vari scherzi che il conte d’Eu, suo vicino nell’accampamento di Sayette, fa a Joinville, come disturbarlo durante i pranzi lanciandogli oggetti con una piccola catapulta “casalinga” o come quello, un po’ meno divertente, della sua orsa a cui faceva uccidere le galline del siniscalco[61].

Accanto a un re che ama ridere e divertirsi, troviamo però anche un re che si adira, forse per Joinville un po’ troppo facilmente: nel giorno della partenza da Hyères (dove era sbarcato all’inizio del luglio 1254, preferendo per comodità questo porto a quello fatto edificare da lui, Aigues-Mortes) Luigi IX aggredì verbalmente il suo scudiero, Ponce, per non avergli portato subito il suo palafreno e per averlo di conseguenza costretto a procedere per un buon tratto a piedi. Nonostante la difesa dello scudiero da parte di Joinville, che ricordò al sovrano quanto bene quello scudiero aveva servito suo padre, suo nonno e lui stesso, Luigi non fece alcun passo indietro, e anzi ricordò un insegnamento di suo nonno su come un buon governatore debba essere generoso con chi lo merita e duro con chi non lo meriti.[62]

Ma l’immagine del re proboviro resta predominante nelle pagine di Joinville, soprattutto quando il siniscalco si riferisce all’abbigliamento del re ed ai gesti della sua quotidianità, come quando lo dipinge nel momento di cibarsi:

A tavola fu di gusti così sobri che, in nessun giorno della mia vita, lo udii ordinare un piatto speciale come fanno molti uomini importanti; infatti mangiava semplicemente quello che il suo cuoco gli preparava e che gli mettevano davanti.[63]

Anche nel rapporto con il vino Luigi mostra il suo carattere morigerato:

Allungava misuratamente il suo vino con acqua a seconda della forza del vino[64].

 

La sua morigeratezza è accompagnata da una grande saggezza: alla domanda se Joinville allungasse il vino con l’acqua ed alla conseguente risposta negativa del siniscalco, lo rimprovera ricordandogli che bere da giovane lo avrebbe portato alla gotta e a malattie allo stomaco nella vecchiaia, e bere da vecchio la avrebbe portato a facili ubriacature. Del resto negli atteggiamenti di san Luigi si ritrova sempre la tendenza a comportarsi come prud’homme, cioè alla saggezza e soprattutto al senso della misura. Le Goff accosta inoltre il comportamento di san Luigi a tavola al comportamento degli ordini monastici e dei frati mendicanti, ai quali guardò sempre come modello e che lo portarono a una tensione interiore tra aspirazione alla perfezione nella regalità e nella vita spirituale.

Gli appartenenti agli ordini mendicanti furono i maggiori biografi e agiografi di san Luigi. Egli ebbe come confessore un domenicano, Goffredo di Beaulieu; sua moglie un francescano, Guglielmo di Saint-Pathus. Entrambi scrissero delle Vitae di san Luigi, ed entrambi, come Joinville, pongono attenzione al suo atteggiamento a tavola. Goffredo di Beaulieu pone l’accento sull’osservanza da parte del re dei digiuni comandati dalla religione, ma ci mostra anche, nella perenne dialettica tra regalità e aspirazione all’ascetismo, come venisse consigliato dal suo entourage  a non eccedere e a concedersi degli strappi alla regola. Guglielmo invece descrive san Luigi nell’atto di sfamare i poveri e gli ammalati con le proprie mani e di concedere, durante i suoi pasti, delle elemosina. Siamo di certo in presenza di scritti di parte, ma nonostante ciò possiamo trarre da essi alcune caratteristiche della personalità del re-santo.

Anche nel vestiario si palesa il senso della misura di Luigi IX: a differenza dei sovrani a lui precedenti e successivi, non ama vestire vistosamente e con abiti molto ricchi. Il suo vestiario salta subito agli occhi di Joinville la prima che lo vede a Saumur, ed anche successivamente Luigi consiglia al siniscalco che

Bisognava vestirsi ed armarsi in tal modo che gli uomini saggi di questo mondo non lo trovassero eccessivo e che i giovani non lo trovassero insufficiente.[65]

 

L’episodio a cui si riferisce questo consiglio (che troviamo sia nel III che nel VI capitolo) è quello di una disputa tra Joinville e Robert de Sorbon: i due sono entrambi intimi di Luigi, che dal loro rapporto trae gran divertimento. È infatti proprio il sovrano che sollecita spesso le diatribe tra i due  (come ad esempio quando chiede a Joinville se un proboviro vale di più di un uomo devoto) prendendo a volte le difese di uno, a volte quelle dell’altro, stuzzicando la loro gelosia verso la sua persona. Luigi è un re, un cavaliere, sarà santo: ma è anche uomo, e come tale ama divertirsi.

Sul vestiario di san Luigi si sofferma anche Salimbene da Parma nella sua Cronica: all’arrivo del re al capitolo dei francescani a Sens nel 1248 (il re era in viaggio verso Aigues-Mortes), Salimbene descrive i suoi abiti umili, affermando che “lo si sarebbe detto piuttosto un monaco di fervida devozione, che un cavaliere armato per la guerra”.[66]

Con l’episodio del rimprovero dello scudiero Ponce si chiude il racconto della prima crociata di san Luigi. Da questo momento in poi il rapporto tra il re santo ed il siniscalco si fa, per forza di cose, più sporadico e legato ad incontri per così dire occasionali, come per la convocazione del Parlamento. Anche in questa parte del racconto troviamo alcuni spunti utili per delineare la figura di san Luigi come uomo. Joinville torna spesso, come già visto precedentemente, sull’abbigliamento umile del sovrano e sul suo modo di stare a tavola. In questa parte compaiono altri particolari interessanti, come ad esempio l’aneddoto di san Luigi che, dopo aver mangiato, preferisce una dilettevole conversazione libera, in cui ognuno dice quello che vuole, all’ascolto o alla lettura di un libro, oppure la descrizione della risolutezza con la quale Luigi IX risolveva questioni per lui semplici senza chiedere consiglio a nessuno, come avvenne per la richiesta da parte del clero di un aiuto secolare per eseguire le sentenze di scomunica[67].

Significativa è anche la descrizione della generosità con la quale san Luigi manteneva la sua corte, generosità che, secondo Joinville, avrebbe scaturito anche qualche mormorio tra le persone più vicine al re. Riportando le parole del siniscalco:

il re si comportava generosamente e liberamente nei parlamenti e nelle assemblee di baroni e cavalieri; faceva servire alla sua corte molto cortesemente, generosamente e senza risparmio, e più di quanto fosse stato fatto da molto tempo alla corte dei suoi predecessori.[68]

 

Ma la peculiarità dell’uomo Luigi IX delineatoci da Joinville è la compassione. Frequentemente nel il Livre, troviamo accenni a opere di carità e di umiltà: san Luigi ha spesso come ospiti per il pranzo dei poveri, dei vecchi o degli storpi, e ogni giorno faceva delle elemosina così grandi e così generose che a fatica se ne può contare il numero[69]. Questa compassione faceva sicuramente parte della sua personalità, ma era anche dettata dal rispetto dei precetti che il re santo aveva imparato, fin da bambino, ascoltando i sermoni e leggendo i testi sacri. Del resto è innegabile che la sua personalità fosse fortemente plasmata dalla dottrina: abbiamo visto che per ogni sua azione, così come ci vengono delineate da Joinville, c’è un riferimento al sacro o alle scritture. Se tutta la sua vita è stata forgiata dalla vocazione religiosa, è normale che anche la sua personalità lo fosse. E questo probabilmente è ancora più evidenziato nel libro di Joinville che, non dimentichiamolo, fece anche da testimone durante il processo di canonizzazione di san Luigi del 1282. L’ultima parte del suo libro sembra anzi quasi una continuazione di questo processo: elemosina, carità, costruzione di chiese e abbazie e appoggio ai nuovi ordini mendicanti, tutto sembra voler confermare la santità del re.

A conferma di quanto appena detto, il penultimo capitolo è dedicato all’esumazione e all’”innalzamento” della bara di san Luigi, avvenuta a Reims il 25 agosto 1298. Qui si legge un moto d’orgoglio di Joinville, che era stato dimenticato dal nuovo re ma che viene citato durante la messa dall’arcivescovo come testimone oculare della santità di Luigi IX, con riferimento all’episodio delle diecimila lire restituite ai saraceni nonostante un accordo in semplice forma orale. E ancora una testimonianza d’affetto e vicinanza tra i due si ha nel penultimo capitolo, nel quale è descritto il secondo sogno del siniscalco nel quale compare il re santo: questi appare davanti la cappella di Joinville, lieto e gioioso nell’affermare la sua intenzione di restare lì[70]. E proprio a seguito di questo sogno Joinville suggella il suo amore dedicando un altare al suo amico santo.

Conclusioni

Ho tentato in questa tesina di delineare la personalità di san Luigi vista attraverso il racconto di Jean de Joinville, ponendo un particolare interesse ai suoi legami affettivi. Questi sono legati quasi esclusivamente alla sua famiglia, o per meglio dire al suo lignaggio: abbiamo infatti visto come gran parte del suo interesse e del suo affetto siano dedicati alla madre ed ai fratelli, mentre sembra dimostrare uno scarsissimo interesse nei confronti della moglie e dei figli in età infantile. Tutto il mio lavoro è stato incentrato sul volume scritto da Joinville, nel quale sono assenti personalità comunque importanti nella vita di Luigi IX, come la sorella Isabella, a cui era legato da un grande affetto e che ci si presenta attraverso le altre biografie e agiografie a loro contemporanee come un alter ego femminile del fratello, il primogenito Luigi, la cui morte nel 1260 a 16 anni provocò un grandissimo dolore al re, e l’altro figlio Tristano, nato durante il periodo di prigionia di Luigi e morto durante la crociata di Tunisi. Molto altro ancora ci sarebbe da raccontare sui legami e sulla personalità di san Luigi, ma quello che è certo è che Joinville si presenta, come già detto durante la prima parte di questo lavoro, come fonte privilegiata e unica per descrivere il protagonista di questo racconto. Riesce a superare il genere dell’agiografia riportandoci anche i difetti e i lati meno positivi di un re che, all’epoca della stesura della sua vita, era già diventato santo, ed è quasi l’unico (mi viene in mente solo Matteo Paris) a mettere in cattiva luce Bianca di Castiglia.

Joinville è inoltre una fonte privilegiata in quanto amico di san Luigi, un’amicizia supportata da un grande amore del siniscalco nei confronti del sovrano, e che molte pagine del suo libro tentano di caratterizzare come reciproco. È forse proprio per questo, assieme al fatto della vicinanza fisica dei due durante i sei anni della crociata, che il Livre des saintes paroles et des bons faiz de nostre saint roy Looÿs si dimostra la fonte migliore e più soddisfacente per il compito che mi è stato assegnato.

Tommaso Ciotti,

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bibliografia essenziale:

 

Jean de Joinville, Storia di san Luigi, a cura di Armando Lippiello e con introduzione di Jacques Le Goff, Il cigno Galileo Galilei, Roma 2000.

Jacques Le Goff, San Luigi, Einaudi, Torino 20073.

Cronache, Biografie e Agiografie citate e consultate:

Guillaume de Saint-Pathus, Les miracles de Saint Louis, Percival B. Fay, Paris 19316.

 

Guillaume de Nangis, Vie et vertus de Saint Louis, Librairie de la société bibliographique, Paris 1877.

Salimbene de Adam da Parma, Cronica, a cura di Giuseppe Scalia, traduzione di Bernardo Rossi, 2 voll., MUP editore, Parma 2007, Vol. II.

Matthew Paris, Chronica Majora, 5 voll., Henry Richards Luard, D.D., London 1964, Vol.V, A.D. 1248 to A.D. 1259.

Per il quadro storiografico:

 

Beryl Smalley, Storici nel Medioevo, Liguori, Napoli 201211.

 

 

 

 


[1] Jacques Le G.off, San Luigi, Einaudi, Torino 20073, p.389

[2] Ivi, p.380

[3] cfr. Le Goff, San Luigi cit., pp. 383-387.

[4] Per la relazione di questa tesina ho utilizzato la traduzione italiana di Armando Lippiello, pubblicata a Roma da Il Cigno – Galileo Galilei – Edizioni di arte e scienza. Lippiello si basa sulle traduzioni in francese moderno di Natalis de Wailly e di Jacques Monfrin, che a loro volta integrano il Manoscritto di Bruxelles, risalente all’incirca al 1330, con i più recenti manoscritti di Lucca e Reims (ritrovati rispettivamente nel 1740 e nel 1865), prendendo spunti anche dalle edizioni di Poitiers (1547) e Parigi (1617). Per quanto concerne dunque le citazioni di Joinville, queste saranno in italiano, con il numero di pagina riferente alla sopracitata edizione.

[5] Le Goff, San Luigi cit., p.357

[6] Luigi VIII muore l’8 novembre del 1226 a Montpensier, ucciso dalla dissenteria che lo colpì durante il ritorno a Parigi dopo la vittoriosa crociata condotta contro il conte di Tolosa iniziata il 30 gennaio dello stesso anno. Matteo Paris, nella sua Chronica Major, crede invece all’avvelenamento di Luigi VIII da parte del conte Tebaldo di Champagne, a suo avviso innamorato di Bianca. Cfr. J. Le Goff, La morte del padre e Matteo Paris, benedettino inglese in op. cit.

[7] Le Goff, San Luigi cit., p. 426

[8] Joinville, Storia di san Luigi, a cura di Armando Lippiello e con introduzione di Jacques Le Goff, Il cigno Galileo Galilei, Roma 2000, p. 47

[9] Ivi, p. 54

[10] Ivi, p. 56

[11] Ibidem

[12] Ivi, p. 133

[13] Ivi, p. 180

[14] Ibidem

[15] Le Goff, San Luigi cit., pp. 381-382

[16] Guillaume de Nangis, Vie et vertus de Saint Louis, Librairie de la société bibliographique, Paris 1877, p.323

[17] Le Goff, San Luigi cit., p.92

[18] Joinville cit., p. 45

[19] Ivi, pp. 177-178

[20] C’è anche un altro episodio in cui il rapporto tra i due sembra ribaltarsi, ed è quello contenuto nel capitolo 131 nel quale il re ascolta benevolmente l’abate di Cluny, che gli aveva regalato due palafreni abbastanza costosi. Joinville rimprovera Luigi, perché a suo avviso aveva prestato più attenzione all’abate a causa del suo generoso regalo, e consiglia lui e tutto il suo seguito di non accettare più regali da coloro che chiedono udienze, consiglio che viene accettato dal sovrano. Joinville, Storia cit., p.193.

[21] Ivi, p. 179.

[22] Ivi, p. 180.

[23] cfr. Joinville, Storia cit., p. 181.

[24] cfr. Joinville, Storia cit., p. 119.

[25] Le Goff, San Luigi cit., p. 599.

[26] Joinville, cit., p. 90

[27] Ibidem

[28] Ivi, p. 95.

[29] Ivi, p. 103.

[30] Le Goff, San Luigi cit., p.592.

[31] Joinville, cit., p.129

[32] Ibidem.

[33] Ivi, p. 138.

[34] In questo paragrafo mi attengo esclusivamente a ciò che si può evincere dal libro di Joinville.

[35] Ivi, p. 202.

[36] Ibidem.

[37] Le Goff, San Luigi cit., p.343.

[38] Joinville, cit. p. 212

[39] Osserva Guillame de Nangis nella sua Vie de Saint Louis, riferendosi a san Luigi: “manu sua in gallico scripserat”, Guillame de Nangis, Vie et vertus cit.

[40] L’altra citazione è quella relativa al rimprovero allo scudiero Ponce, vedi oltre.

[41] Ne parla approfonditamente Le Goff nel capitolo San Luigi in famiglia in San Luigi cit.

[42] Joinville, Storia cit., p. 39

[43] Obbedienza alla dottrina, non alla gerarchia ecclesiastica, come mostra la discussione tra il re e il vescovo di Auxerre Gui de Mello sull’esecuzione da parte degli apparati amministrativi del regno di Francia delle scomuniche papali: “sarebbe stato contro il volere di Dio e contro ragione di costringere la gente a farsi assolvere anche quando il clero era nel torto”. Ivi, p. 45

[44] Ivi, p. 40

[45] Ivi, p. 42

[46] Il rapporto di Luigi con domenicani e francescani fu particolarmente stretto. Anche nelle pagine di Joinville questo rapporto viene sottolineato, sia attraverso dialoghi tra il re e i monaci, sia attraverso l’uso di queste figure nei suoi esempi e nei suoi racconti. L’argomento è vasto e già ampliamente trattato, ma quello che qui mi preme sottolineare è che, oltre a un interesse spirituale e religioso, a me sembra che san Luigi sia ammaliato da queste figure anche da un punto di vista umano. In un certo modo forse esse rappresentano il suo ideale di vita, a cui lui aspira ma che non potrà mai raggiungere a causa della sua condizione di sovrano. Mi sembra anche che questa attrazione sia talmente forte da essere notata da Joinville, che nel suo racconto si sofferma spesso su questo rapporto. Una congettura divertente potrebbe essere che sia addirittura geloso dei monaci, come lo fu per Robert de Sorbon, ma che non possa esprimersi a riguardo per la loro evidente posizione di superioriotà.

[47] Ivi, p. 43

[48] Salimbene da Parma, Cronica, a cura di Giuseppe Scalia, traduzione di Bernardo Rossi, 2 voll., MUP editore, Parma 2007, Vol. II.

[49] Joinville, Storia cit., p.44

[50] Sull’amministrazione della giustizia ci sarebbe molto da dire. Anche se non è tema della mia ricerca, vorrei comunque sottolineare che spesso Luigi IX fu molto duro nei suoi giudizi, come è d’esempio la vicenda dei sei giovani parigini a Pantelleria (Ivi, pp.189-190). A volte Joinville sembra non apprezzare questa durezza, mentre altre volte, soprattutto quando lui è la parte offesa, chiede una maggiore severità al sovrano (cfr. capitolo 99). È necessario tenere sempre in considerazione, nell’analisi del suo libro, che Joinville pecca spesso di soggettività, considerando questa memoria del re anche come racconto di una parte importante della sua vita.

[51] Ivi, p.71

[52] Ivi, p. 58

[53] Ivi, p.131

[54] Ivi, p.135

[55] Ivi, p.136

[56] Ivi, p. 138

[57] Ivi, p. 154

[58] Ibidem

[59] cfr. “Le rire dans la société médiévale” in “Un autre moyen Age”, J. Le Goff. Nella Chronica Majora Matteo Paris è invece prevalente l’immagine di san Luigi come rex tristis, una tristezza incommensurabile dovuta alla sua sconfitta nella crociata. Un cambiamento d’atteggiamento è sottolineato anche da Le Goff, che enfatizza l’incremento delle pratiche penitenziali di san Luigi dopo il ritorno in Francia, per poi affermare che in ogni caso “la rinuncia definitiva di Luigi a ogni gaiezza è, invece, un fantasma di Matteo Paris”, Le Goff, San Luigi cit., p.366.

[60] Joinville, Storia cit., p. 170

[61] Ivi, pp.174-175

[62] Ivi, p. 195

[63] Ivi, p.34

[64] Ibidem

[65] Ibidem

[66] Salimbene da Parma, Cronica cit.

[67] L’esempio che fece Luigi IX fu quello relativo al conte di Bretagna, che venne mantenuto per ben sette anni sotto scomunica prima che questi venne assolto dalla corte di Roma. Cfr. Joinville, Storia cit., p. 197

[68] Ivi, p. 209. Sulla generosità dei pasti offerti da san Luigi è anche interessante la descrizione di Salimbene da Parma e riportata da Le Goff del pranzo offerto dal re ai francescani riunitisi nel capitolo di Sens, cfr. Le Goff, cit. pp.374-275.

[69] Joinville, Storia cit., p. 208

[70] Come nota Lippiello, questa è l’unica volta nella quale san Luigi si rivolge a Joinville con l’epiteto di sire, mentre in tutto il racconto si era rivolto a lui come “siniscalco”. Cfr Joinville, Storia cit., pp. 217-218.

In questi giorni in cui uno pseudo sindacato di polizia come il Coisp difende quattro assassini (condannati a una pena irrisoria) e provoca la madre di un ragazzo di 18 anni ucciso senza motivo, ho pensato di riproporre un documentario sul G8 di Genova.
“Bella Ciao”, prodotto da Marco Giusti e Roberto Torelli, mostra in modo chiaro quale fu il comportamento delle forze del (dis)ordine durante quelle tragiche giornate del luglio 2001. A causa del suo carattere esplicito di documento di inchiesta e denuncia, la messa in onda di “Bella Ciao” fu fortemente boicottata dalla Rai. Solo grazie alle forti proteste del direttore di Rai4 Carlo Freccero contro l’ennesimo caso di censura nella rete nazionale, il documentario fu trasmesso dalla stessa rete in occasione della ricorrenza dei dieci anni dei fatti narrati. Alle 00.35.

Il Coisp invitò a non strumentalizzare i fatti di Genova, definendo Placanica vittima tanto quanto Giuliani (certo, peccato che Giuliani è morto).
Nello stesso comunicato una delle frasi di chiusura fu: ” Nessun poliziotto, nessun carabiniere scende in piazza per far male ma se mai per evitare che accada qualcosa di male”.

Dopo Genova, dopo i casi Cucchi, Aldrovandi, Sandri, eccetera, non so quanto una dichiarazione del genere possa considerarsi veritiera.

Video  —  Pubblicato: 30 marzo 2013 in Uncategorized

Nuit et brouillard, di Alain Resnais

Pubblicato: 15 dicembre 2012 in Storia

Nuit et brouillard, di Alain Resnais.

“Io non sono responsabile, dice il Kapò.
Io non sono responsabile, dice l’ufficiale.
Ma allora chi è responsabile?”

Clicca sul link per vedere il documentario e per leggere un brevissimo commento.

 

Einleitung – Was ist „Mezzogiorno” und „Questione Meridionale“?

Mezzogiorno ist ein italienisches Wort und bezeichnet  im allgemeinen Sprachgebrauch den Teil von Italien südlich von Rom. Aber dieses Wort ist in Wirklichkeit ein relativ neues Wort: nach der Einheit Italiens  hat es  eine vollständig neue Bedeutung erworben. Von einer einfachen geographischen Bedeutung   ist „Mezzogiorno”  zu einer politischen, wirtschaftlichen und sozialen Bedeutung geworden. Mit diesem Thema haben sich viele wichtige historische  Personen  wie Gramsci, Croce und Salvemini beschäftigt.

Aber seit wann wird  dieses Wort verwendet?

„Questione Meridionale“ wurde erstmals im Jahre 1873 von dem radikalen lombardischen Abgeordnete Antonio Billia ausgesprochen[1], weil er das wirtschaftliche Nord-Süd Gefälle anprangern wollte. Nach der Einheit Italiens beginnt man von trotzdem „zwei Italien“ zu sprechen. Norditalien und Süditaliens waren zwei breitgefächerte Makroräume: der Norden war verhältnismäßig Industrialisiert und hatte eine gute Landwirtschaft; der Süden war dagegen weitestgehend bar jeder Industrie (mit Ausnahme von dem neapolitanischen Gebiet) und hatte eine sehr rückständige und unergiebige Landwirtschaft. Die war von dem Großgrundbesitz und von großen unbebauten Grundstücken gekennzeichnet.

Die Ursachen der Rückständigkeit Süditaliens sind vielfältig: sie sind politisch, ökonomisch, kulturell, geschichtlich, für manche auch psychologisch und anthropologisch. Hier haben wir keinen Platz, um diesen Diskurs zu eingehend untersuchen. Ich werde hier nur die Thesen von Antonio Gramsci und Alfredo Niceforo hinterfragen.

 

 

Gramsci und die „Questione Meridionale”

Einleitung

Antonio Gramsci (1891-1937) ist ein Sardinischer antifaschistischer Intellektueller und Politiker.  Der im Jahre 1921 der Kommunistichen Partei Italiens beitritt und er ist Abgeordneter vom 6.April 1924 bis 8.November 1926, wenn er vom faschistischen Regime eingekerkert wird. Nach fast 11 Jahren der Gefangenschaft, während der er seine bekannten „Quaderni del carcere” schreibt, ist er in Rom gestorben.

„La questione meridionale” ist eine Sammlung von Aufsätzen, überwiegend vor der Einkerkerung geschrieben und sie ist hauptsächlich an die Mitglieder der Kommunistichen Partei gerichtet. In diesem Buch rät Gramsci der Partei zur Entwicklungspolik des Südens und er antwortet auf die Kritik einiger bürgerlicher Zeitungen. Einige von diesen Texten sind Manuskripte, unvollständig und nicht publiziert, weil während des faschistischen Regime geschrieben.

Das ist der Grund, warum es nicht einfach ist, den objektiven Einfluss von diesem Buch zu begreifen, obwohl (wie für alle Werke von Gramsci) ein Einfluss auf die Partei selbstverständlich ist.

Das Buch

Die Untersuchung des Sardischen Intellektuellen ist  keine resignierte Betrachtung des südlichen Italiens. Er ist der Ansicht, dass die Ursprünge des Nord-Süd Gefälles mitteralterlich sind. Seit der longobardischen Invasion hatte Italien eine zweifache Entwicklung: im Norden erlaubte die Machtergreifung der Stadtstaaten die Entstehung von einem gewissen Bürgertum, das fähig war,  eine Entwicklung ähnlich jener von den nordeuropäischen Ländern zu schaffen. Dagegen konnte der Süden lediglich die Herrschaften von Schwaben, Anjou, Spanien und Bourbonen kennen lernen und der spanische Paternalismus schuf gar nichts, weder eine bürgerliche Klasse bereit zur Industrialisierung, noch die erforderlichen Infrastrukturen zur industriellen Entwicklung.

Nach der Einigung Italiens schadete der industrielle Protektionismus dem Süden: er verursachte einen Kapitalstrom von Süden nach Norden, während der Agrarprotektionismus sich als ein unwirksamer Verwaltungsakt erwies.

Außer dem Protektionismus schadete auch die Kriegswirtschaft dem Süden: alle industriellen Ressourcen wurden noch nach dem schon industrialisierten Norditalien verschoben, und die weitere protektionistische Politik des Wettbewerbs mit anderen Staaten haben zusätzlich die Bedingungen der süditalienischen Wirtschaft verschlechtert.

Gramsci dachte, dass der Protektionismus die Bauern in Gegensatz zum städtischen Proletariat brachte. Zum Beispiel beschuldigt der Sardische Politiker den Staat wegen des zu teueren Festpreises des Brotes (40 Francs): mit der Ausrede die süditalienische Landwirschaft zu verbessern verschlechterten sich die Bedingungen der Sardischen und Kalabrischen Bauern, und wurden die emilianischen und lombardischen landwirtschaflichen Großbetriebe reicher.

Im Bereich der Wirtschaft wurde nicht das Geld der Migranten in Süditalien investiert, sondern dieses wurde in staatlichen Wertpapiere mit Festzins investiert. Gramsci schreibt: “Die 400.000 Gläubiger der BIS (Italienische Diskontbank ) waren in großer Mehrheit süditalienische Sparer.”[2]

Gramsci’s Meinung nach wird die wichtigste Rolle in der “Questione Meridionale” von dem industriellen Proletariat Norditaliens gespielt: nach der Schaffung der “Diktatur des Proletariats” muss sich die industrielle Produktion dem Bau der landwirtschaftlichen Maschinen für die südländischen Bauern zuwenden. Es macht keinen Sinn, dass sie die Besitzer des Landes werden, wenn sie nicht die richtigen Produktionsmittel besitzen. Ein Bündnis zwischen dem industriellen Proletariat und den süditalienischen Bauern ist notwendig.

In diesem Buch malt Gramsci ein Bild der “meridionalen” Gesellschaft und sie ist eine Pyramide: die Grundlage sind die Bauern und die Spitze sind die großen Besitzer und die Großgrundbesitzer. Die Verbindung zwischen ihnen sind die Intellektuellen. Er ist der Meinung, dass ihretwegen die Bauern nach keiner allgemeinen Entwicklung streben können: die süditalienischen Intellektuellen haben immer eine sehr wichtige Funktion in der italienischen bürgerlichen Politik gespielt, und sie haben immer die Einheit zwischen Bauern und industriellem Proletariat durch die Politik des “Anschluss zum landschaftlichen Block”[3] verhindert. Die größten Repräsentanten dieser Intellektuellen sind Giustino Fortunato und Benedetto Croce[4], während für Gramsci Piero Gobetti, der kein Kommunist war, den vorbildlichen Intellektuellen verkörpert. Gramsci fand, dass nur die Intellektuellen das Bewusstein und die Bedingungen erschaffen können, die erforderlich zur Entwicklung der bäuerlichen Klasse sind.

Eine zeitgenössiche Auswertung

Die Eigenartigkeit von der gramscischen Analyse ist ihre Aktualität: seine Darstellung der süditalienischen Gesellschaft ist nicht so weit entfernt von dem zeitgenössischen Süden. Mit dem Unterschied, dass die neuen Kinder der afrikanischen Auswanderung die bodenständigen Tagelöhner ersetzt haben.

Trotz dem Wirtschaftwachstum der Nachkriegszeit und dem staatlichen Investitionsplan (“Cassa per il Mezzogiorno”) sind die privaten Kapitalanlagen noch gering, und die Betriebserfolge werden selten “in loco” reinvestiert. Ich glaube, dass dieses eines der größten Probleme von Süditalien ist, und Gramsci hatte da schon in den 1920er Jahren erkannt.

Der Einfluss der Idee von Gramsci auf die Kommunistischen Partei Italiens war wesentlich: in der Nachkriegszeit schlug  die PCI wieder das Bündnis zwischen süditalienischen Bauern und norditalienischem industriellem Proletariat vor, und sie versuchte den Gesellschaftsschichten, die von den landwirtschaftlichen Großgrundbesitzern dominiert waren mehr Raum zu geben. Das Erkennungswort der Partei blieb „Boden für die Bauern“, und sie dachte, dass die Priorität die Agrarreform war. Aufgrund dieser politischen Theorien und infolge der Analyse von Gramsci lehnte in den 1940er und 1950er Jahren die PCI jede Wirtschaftspolitik einschließlich die „Cassa per il mezzogiorno“ (eine große staatliche Finanzierung für Süditalien) ab: Giorgio Amendola sagte im Parlament, dass nur ein politischer und sozialer Wandel die Bedingungen in Süditalien verbessern könnte; deshalb war eine Neubildung des Meridione erforderlich.

 

 

Alfredo Niceforo und die zwei italienischen Rassen

Einleitung

Alfredo Niceforo (1876-1960) war ein sizilianische Kriminologe, Soziologe, Anthropologe und Statistiker. Er hat an vielen Universitäten gelehrt (Turin, Messina, Neapel, Rom), und ab 1949 ist er Mitglied der “Accademia dei Lincei” gewesen.[5]

Niceforo wird vor allem wegen seinen drei Werken über Süditalien von vielen als der Bahnbrecher des “wissenschaftlichen” Rassismus betrachtet. Diese Werke sind “Die Kriminalität in Sardinien”[6], “Das zeitgenössische barbarische Italien”[7] und “Süditaliener und Norditaliener”[8]. Es ist sehr kniffelig diese Bücher zu finden, weil sie nach dem Faschismus, dem Rassengesetz von 1938 und dem Zweiter Weltkrieg nicht nachgedruckt wurden.[9]Tatsächlich hatten seine Begriffe einen gewissen Einfluss auf die italienische Mentalität: Bis zum heutigen Tage ist die rassistische Weltanschauung sehr lebendig, nicht nur in Bezug auf die Ausländer, sondern auch gegen die Süditaliener. Einige Stereotypen von dieser Mentalität wie zum Beispiel der Müßiggang oder der Parasitismus des Süditalieners werden von vielen Anhängern der “Lega Nord” verwendet.

Die Bücher sind sicherlich an die wissenschaftliche Gemeinschaft gerichtet.

“Die zeitgenössische barbarische Italien” und “Süditaliener und Norditaliener”

Wie ich bereits gesagt habe, ist es nicht einfach ein Buch von Niceforo zu finden. Für diesen Text habe ich deshalb einige Leseproben, die ich in Rolf Petri’s “Raummetaphern der Rückständigkeit”[10] und im Web gefunden habe, verwendet. Aber um den Charakter seiner Analyse zu begreifen, ist es ausreichend den Inhalt von “Süditaliener und Norditaliener” zu lesen. Diese sind die ersten fünf Kapitel:

 

1-    Die zwei Rassen.

2-    Die Form der Gehirnschale.

3-    Der Schädelindex.

4-    Der kleinste Stirndurchmesser.

5-    Die Nasenform.

 

Niceforo will seinen Werken einen wissenschaftlichen Aufbau geben. Diese wollten wissenschaftliche Analysen sein. Er konzentriert sich nicht auf die geschichtlichen und kulturellen Unterschiede der Süditaliener, sondern er konzentriert sich nur auf die rassischen Unterschiede. Er war der Meinung, dass Süditalien das Rückgrat der westlichen Gesellschaft war, aber es ist nur der Verdienst der aufgeklärten Männer, dass Süditalien das “Magna Grecia” war. Trotzdem erkannte der sizilianische Anthropologe zwei italienische Rassen:

 

“Im Norden des Tiber siedelte das arische Element, im Süden das Mediterrane, in Mittelitalien entstand ein Gemisch aus beiden.”[11]

 

Die Auswirkungen von dieser Aufgliederung waren zwei verschiedene psychologische Gemüter: Norditaliener haben einen großen Bürgersinn, sie neigen zum Handel, sie sind ausdauernd und bedächtig; Süditaliener neigen dagegen zum Koller, sie sind gewaltsam, untätig, usw.

Niceforo verwandelte schließlich diese Unterschiede und diese Gemüter in eine Hierarchie, und er behauptete, dass in Bezug auf den Fortschritt und die Bildung der Massengesellschaft die süditalienische Rasse von den Norditalienern dominiert werden würde.

In “Das zeitgenössische barbarische Italien” sind diese Vorstellungen noch stärker: Niceforo unterschied die Weltbevölkerung zwischen “Männer-” und “Frauenbevölkerungen”. Selbstverständlich sind in Italien die Süditaliener eine “Frauenbevölkerung” und die Norditaliener (wie alle nordeuropäischen Völker) eine “Männerbevölkerung”.[12] Daher sind Süditaliener nicht  der Freiheit würdig. Sie lassen sich von irgendeiner gebieterischen Macht beherrschen.

Die Präzedenzfälle

Alfredo Niceforo ist nicht der Erste, der eine rassistische und diskriminierende Einstellung gegen die Süditaliener hat: die frühen aufklärerischen europäischen Reisenden hatten keine sehr andere Meinung von ihnen, obwohl ohne seinen wissenschaftlichen Ansatz. Zum Beispiel beschrieben die französischen Reisenden der Aufklärung die Einwohner des Bourbonenreiches als „lethargische, hinterlistige, wankelmütige und dem Müßiggang frönende Menschen, die abseits von Europa hinter ihren unzugänglichen Bergen leben.“[13]

Nicht nur die europäischen Reisenden, sondern auch mehrere norditalienische Politiker hatten nach der Einheit Italiens einen ähnlichen Ansatz: der Mezzogiorno ist „ein Brand“ (Luigi Carlo Farini), „eine Seuche“ (Massimo d’Azeglio), „ein Geschwür“ (Diomede Pantaleoni), „eine räuberische Rasse“ (Carlo Nievo)[14]. Immerhin sagte Ferdinando II: „Afrika fangt hier an“.[15]

Wir können die Geringschätzung gegenüber Süditalienern von zwei Gesichtpunkten lesen:

  • Der „kolonialistische“ Gesichtspunkt betrachtet die süditalienische Situation von einem rassistischen und einen „orientalistischen“[16] Blickwinkel aus;
  • Ein anderer Gesichtpunkt ist die Angst und der Ekel vor einem Land dargestellt als „Afrika“, obwohl in der Nähe Paris, Berlin und London liegen, und das gleichzeitig sowohl die Wiege der westlichen Kultur als auch der Geburtsort der Bräuche und der Sitten (hauptsächlich der Regierung) sehr fern von den europäischen zeitgenössischen Standards ist.

Ich glaube, dass Alfredo Niceforo von diesem kulturellen Klima beeinflusst wurde, und ich bin der Meinung, dass eine historische Kontextualisierung notwendig ist, um seine Theorien besser zu begreifen.

Wirkungen

Am 18. September 1938 las Mussolini erstmals die “Rassengesetze” vor; das machte er nach den Ausschreitungen in Lybien und Äthiopien. Auch schon vor den Rassengesetzen enthielten die Zeitungen viele rassistische Zeitungsartikel. Italien war ein rassistisches Land.

In Italien gibt es den Mythos der Italiener als „brava gente“: die Italiener werden als friedliche Leute, nicht rassistisch und freiheitlich dargestellt; sie denken an den Zweiten Weltkrieg nur nach dem Jahre 1943, oft vergessen sie ihre Kriegsverbrecher. Aber Niceforo’s Bücher können uns helfen die italienische Mentalität besser zu verstehen.

Außerdem glaube ich, dass Niceforo und der „wissenschaftliche Rassismus“ die rassistische Politik des Faschismus beeinflusst haben: seine Redeweise ist nicht so anders als die des „Manifest der Rasse“[17] oder als die der „Rassengesetze“. Natürlich ist dieser Rassismus in der Nachkriegszeit geschwunden, obwohl ein Keim des Rassismus gegen die Süditaliener geblieben ist; und die Ideen von Niceforo sind noch in der Mentalität von einigen Norditalienern nicht gestorben.

 

 

Bibliographie

  • Petri Rolf und Stouraiti  Anastasia, “Raummetaphern der Rückständigkeit: Die Levante und der Mezzogiorno in italienischen Identitätsdiskursen der Neuzeit.” In: B. Schenk und M. Winkler, eds. Der Süden. Neue Perspektiven auf eine europäische Geschichtsregion. Frankfurt, 2007: Campus Verlag, pp. 151-174.
  • Antonio Gramsci, “La Questione Meridionale”, Rea edizioni, L’Aquila, 2011.
  • Paolo Macry, “Unità a Mezzogiorno”, Il Mulino, Bologna, 2012.
  • Alfredo Niceforo, “L’Italia barbara contemporanea”, Milano-Palermo, 1898.
  • Alfredo Niceforo, “Italiani del Nord e Italiani del sud”, Torino, 1901.
  • Gilles Pécout, Il lungo risorgimento”, Bruno Mondadori edizioni, Milano, 1999.
  • Tommaso Detti und Giovanni Gozzini, „L’Ottocento“, Bruno Mondadori edizioni, Milano, 2000
  • ·      Edward Said, “Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente”, in “collana Universale economica. Saggi”, 2 ed., Feltrinelli, 2002

 

Herzlichen Dank an Frau Fontana Eva für die Korrekturen

 

 

 

 

 


[1] Salvatore Francesco Romano, Storia della questione meridionale, Edizioni Pantea, 1945, p.42.

[2] Antonio Gramsci, “La questione meridionale”, Rea edizioni, L’aquila, 2011, p.82

[3] “Politiche di annessione al blocco agrario”, Ibidem, p.84

[4] Ibidem, p.83

[5] Guido Pescosolido, “Questione meridionale”, in “Enciclopedia del Novecento Treccani”, III Supplemento, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/questione-meridionale_%28Enciclopedia_Novecento%29/

[6]La criminalità in Sardegna”, Palermo, 1897

[7]L’Italia barbara contemporanea”, Palermo – Milano, 1898

[8]Italiani del Nord e italiani dei sud”, Torino, 1901

[9] Es gibt nur eine neue australiche Auflage

[10] R. Petri, Ibidem

[11] A. Niceforo, “L’Italia barbara contemporanea”, Palermo 1898.

[12] Ibidem, p. 247-248

[13] R. Petri, cit. p.161

[14] Macry, “Unità a Mezzogiorno”, Il Mulino edizioni, Bologna, 2012, p. 24-25

[15] Ibidem

[16] Edward Said, “Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente”, in “collana Universale economica. Saggi”, 2 ed., traduzione di Stefano Galli, Feltrinelli, 2002, pp. 395.

[17] “Il manifesto della razza”

 

“Fascist legacy” ed il “Giorno della Memoria”

Il dibattito sui crimini fascisti nella seconda guerra mondiale e sul mito degli italiani “brava gente” si riaccese in maniera consistente tra la fine del degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90, quando venne rimesso in discussione l’operato dell’esercito italiano e la reale consistenza del mito affermatosi nella coscienza pubblica del nostro paese.
Una delle prime voci a sollevarsi fu quella di Teodoro Sala che, attraverso l’analisi dei documenti e delle carte relative all’operato delle truppe italiane, evidenziò come le violenze e le repressioni italiane nei territori occupati dei Balcani fossero la dimostrazione dell’inadeguatezza della narrazione comune di far fronte alle reali responsabilità storiche del paese: “[…] Velleità, impreparazione, incertezza degli obbiettivi politici trasformavano il nostro sistema di occupazione in un’odissea di cieca violenza […] qui potremmo abbandonare […] i vaghi sentieri del mito-leggenda degli “italiani brava gente” tornato di moda, pare, nel clima odierno di riscoperta dei “valori nazionali”. Dove le mezze verità, come al solito, partoriscono grandi bugie […]”, Il manifesto, Italiano “brava gente”, il mito non regge ai massacri in Slovenia, 5 marzo 1987.
Otto mesi più tardi, Renzo De Felice, nell’intervista realizzata da Giuliano Ferrara sul Corriere della Sera, proponeva la revisione e il superamento del paradigma antifascista, per la costruzione di una nuova Repubblica, non più basata sul valore fondante dell’antifascismo come era stato nel dopoguerra: “[…] Io ho fatto e faccio il mio lavoro di storico del fascismo. So che il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio, è fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto. Per molti aspetti il fascismo italiano è stato “migliore” di quello francese ed olandese. Inoltre da noi la revisione è più utile per le ragioni che ho esposto e che riguardano la costruzione di una nuova Repubblica”. Corriere della Sera, Perché deve cadere la retorica dell’Antifascismo, 27 dicembre 1987.

Norberto Bobbio

 

Un anno dopo Norberto Bobbio sottolineò come in Germania i temi della colpa e delle responsabilità della società tedesca durante il nazismo fossero stati posti al centro della riflessione e della rielaborazione della storia nazionale, mentre in Italia un esame critico di tale genere non era mai stato effettivamente affrontato. Bobbio sostenne la necessità storica e civile di non equiparare fascismo e antifascismo, rifuggendo dal tentativo di superamento in chiave revisionista dell’antifascismo come valore fondante della Repubblica: “[…] Il problema della colpa sembra rimasto un problema soltanto tedesco. Sulle colpe di Mussolini, dei gerarchi e dei fascisti c’è un’infinità di volumi. Ma sulla colpa degli italiani, presi uno ad uno e non astrattamente come popolo?[…] eppure il consenso, anche se passivo, c’è stato […] ci sono stati, è vero, coloro che andarono in esilio e coloro che anche in patria dissero apertamente di no e finirono in prigione. Ma quanti? Quanti furono invece coloro ai quali si può rivolgere l’accusa che Jenninger rivolge ai tedeschi, di aver taciuto? […] non abbiamo fatto parte noi tutti o quasi tutti di questa comunità del silenzio? Del silenzio e dell’accettazione?[…] non avrei ripreso quest’argomento se le due interviste del nostro maggior storico del fascismo […] non fossero ripubblicate nel volume “Il fascismo e gli storici” e se in un suo intervento sul caso Jenninger Augusto Del Noce, cui risale in anni ormai lontani la tesi del “Né fascismo né antifascismo”, non  l’avesse ribadita pochi giorni fa in un articolo significativamente intitolato “Quell’antifascismo non più attuale” accogliendo tra l’altro la tesi dei “revisionisti” tedeschi secondo cui il nazismo si spiega come una dura ma necessaria reazione al comunismo. […] che imbecille quel loro Presidente che li ha invitati a fare un esame di coscienza!”. La Stampa, Le colpe rimosse di noi italiani, 6 dicembre 1988.
Fu però la proiezione, nel novembre 1989, dell’inchiesta della BBC Fascist legacy (L’eredità fascista), di Michael Palumbo e Ken Kirby ad imprimere un’accelerazione ed una maggiore impronta critica al dibattito sui crimini di guerra italiani obbligando i mass-media e l’opinione pubblica italiana a confrontarsi con la storia nazionale.
L’inchiesta attraverso documenti della Commissione ONU, immagini e consulenze di importanti storici italiani come Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, che avevano negli anni svolto ricerche “pionieristiche” sull’argomento, mostrò i crimini di guerra commessi dagli italiani in Africa e nei Balcani aprendo una breccia nel muro di silenzio e di oblio costruito intorno al mito del “bravo italiano”, provocando persino le proteste dell’Ambasciata di Roma a Londra, che accusò di propaganda anti-italiana l’emittente e gli autori del film.
Negli articoli della stampa nazionale fu abbastanza trasversale la volontà di sottolineare e dare ampio spazio alla complicità di americani e inglesi nella costruzione di questo silenzio, oltre che nel mancato processo ai criminali, in modo da poterne condividere le colpe e sfuggire almeno in parte alle proprie responsabilità.
“[…] Ottocento criminali di guerra italiani sono sfuggiti al processo di Norimberga perché inglesi e americani avevano bisogno di loro per mantenere i comunisti fuori dal governo, eppure erano responsabili della morte di milioni di civili. […] Dopo aver ottenuto l’indipendenza il governo di Addis Abeba aveva chiesto che il generale Badoglio venisse processato per aver disposto l’uso di gas venefici e il bombardamento degli ospedali nel corso della guerra di Abissinia 1935-1936. Ma alla conclusione del conflitto mondiale, il Foreing Office si oppose a questa pretesa difendendo un uomo che aveva reso servizi preziosi agli Alleati […]”. La Repubblica, Italia ecco i tuoi crimini di guerra, 10 novembre 1989.
“Immagini atroci sono comparse per due sere […] le immagini dei crimini di guerra commessi dall’Italia durante la II guerra mondiale […] un lungo documentario, una requisitoria che non risparmia nessuno, né il fascismo né i governi post-bellici a Londra e Washington. Sì, perché l’inchiesta non condanna solo i nostri criminali di guerra e i nostri silenzi, ma anche gli inglesi e gli americani, che per motivi politici permisero ai colpevoli di restare impuniti. L’Ambasciata italiana a Londra ieri ha protestato con una lettera al presidente della BBC […] “ Si è messa l’Italia al centro del documentario come se fosse l’unica responsabile , senza tener conto degli altri criminali di guerra”. È una valutazione discutibile […] nel complesso l’indagine è vigorosa e robusta e può sboccare soltanto chi ha preferito ignorare il tema […]”. La Stampa, La BBC processa i crimini italiani, 10 novembre 1989.
Una parte della stampa condannò comunque senza mezzi termini non solo la condotta del Regio esercito, ma anche l’oblio e il silenzio istituzionale dello Stato italiano; un’altra parte dei giornali nazionali non potendo negare la veridicità dei documenti, preferirono sottolineare come si fosse “calcata troppo la mano” contro l’Italia, e come in tutte le guerre fosse raro “salvarsi l’anima”, appoggiando indirettamente le rimostranze dell’ambasciata italiana a Londra.
“[…] l’inchiesta […] è un atto d’accusa contro i criminali di guerra italiani […] sono state trasmesse immagini raccapriccianti, ed in parte inedite, delle campagne di conquista della Libia, dell’Etiopia, della Grecia e della Jugoslavia, accompagnate da documenti ufficiali, testimonianze di sopravvissuti […] secondo gli autori del programma sarebbero 1.200 criminali di guerra, nostri connazionali, sono rimasti impuniti. La tesi è che non c’è stato nessun processo di Norimberga contro gli italiani perché i governi inglesi e americani temevano la presa del potere dei “bolscevichi” in Italia e non volevano indebolire il fronte anticomunista. […] Si comprendono […] la sorpresa e le telefonate di indignazione alla BBC e all’Ambasciata d’Italia […] in guerra è raro salvarsi l’anima e nessun esercito, nemmeno quello di sua maestà, è senza macchia sul fronte delle barbarie. […] esiste la sensazione che si sia voluta calcare la mano contro gli italiani […] una prova di intenzione malevola è il fatto che un’inchiesta intitolata “L’eredità del fascismo” dedichi ampi spazi e commenti alla guerra di Libia combattuta nel 1911-1912 […] anche il momento prescelto per tirar fuori le accuse sui crimini di guerra italiani lascia perplesso qualche osservatore […] il Ministro degli esteri italiano ha espresso “sorpresa e rimostranza per una trasmissione che esprime valutazioni non certo di simpatia per il nostro paese”. Corriere della Sera, In Tv per gli inglesi i crimini degli italiani in guerra, 10 novembre 1989.
“La leggenda degli “italiani brava gente” ha ricevuto un colpo durissimo. Secondo l’inchiesta della BBC […] sarebbero almeno 1.200 i criminali di guerra sottratti alla giustizia del dopoguerra dai governi alleati per timore di ripercussioni negative sulla politica italiana. […] stragi e massacri per lo più ignorati dagli italiani che hanno cercato con successo di rimuovere la loro percentuale di orrore, preferendo credere ad un immaginario colonialismo “buono”. […] in un rapporto americano del ’46 […] si legge: “le affermazioni del governo jugoslavo secondo il quale i crimini del tipo contestato sono stati davvero compiuti sono corroborate dall’ufficio dei servizi strategici” e a un altro documento del Foreing Office: “il Dipartimento di Stato ritiene che la cosa migliore da farsi da ambedue i governi (Usa e Gran Bretagna) sarebbe cercare di insabbiare”. In pratica la paura dei rossi e di un contraccolpo favorevole alla sinistra convinse gli alleati ad avvalorare il mito del colonialismo “buono”. Il manifesto, Criminali brava gente, 10 novembre 1989.
“[…] quelle atrocità, quegli orrori, quei comportamenti bestiali, quegli spaventosi delitti contro l’umanità  sono purtroppo avvenuti e sono stati commessi da italiani […] mi verrebbe da dire che questo ambasciatore deve avere qualche simpatia fascista […] dire che quelle sono state responsabilità di sua maestà il Re, del primo ministro Mussolini, del loro capo di Stato Maggiore Badoglio […] avrebbe dovuto dire: sì, giusto, sono cose terribili tanto è vero che noi italiani abbiamo mandato via il re e abbiamo dato vita alla Repubblica […] abbiamo ammazzato Mussolini […] cosa si poteva fare di più per voltare pagina? […]. Giorgio Spini, Corriere della Sera, Ma l’Italia poi voltò pagina, 10 novembre 1989.
“[…]posso affermare con sicurezza che siamo stati i primi ad usare i gas tossici in Libia tra il 1926 ed il 1928, e in Etiopia dal 1935 al 1938 […] ho calcolato che [in Libia] il colonialismo ha fatto circa 100.000 vittime […] la popolazione libica allora non arrivava a 800.000 unità […] un ottavo di quella popolazione perse la vita. E questo è un dato raccapricciante […]”. Del Boca.
“Mi pare che questa trasmissione non aggiunga niente di nuovo a quello che già si sapeva, […]”. De Felice.
“bisogna conoscere i documenti. L’impostazione del servizio […] ha carattere prevalentemente politico. Tende a colpire i governi conservatori britannici […]”. Quanto all’etichetta criminali di guerra il Presidente del Senato [Spadolini] invita alla prudenza “è una formula che si può usare solo dopo l’espletamento dei giudizi nelle debite sedi. In mancanza di tali giudizi, possiamo porci interrogativi, non dare risposte categoriche”. La Repubblica, È vero e Londra sapeva, gli storici italiani rispondono, 10 novembre 1989.
“[…] Il Ministro degli esteri [De Michelis] risponderà alle interrogazioni presentate in Parlamento. Gerardo Bianco (Dc) e vice-presidente della Camera vuol sapere perché è stata espressa una protesta ufficiale del governo […]. […] al Ministro della Difesa, Mino Martinozzi, è rivolta un’interrogazione del segretario di DP Giovanni Russo Spena che ha chiesto “di togliere pubblicamente ogni medaglia o altra onorificenza militare eventualmente attribuita agli 800 criminali di guerra italiani sfuggiti al processo di Norimberga”. Corriere della Sera, Crimini di guerra ora si minimizza, 11 novembre 1989.
Lo storico Denis Mack Smith, dalle pagine del Corriere della Sera assunse una posizione cauta nel condannare la condotta degli italiani “ignari e inconsapevoli” dei crimini di guerra: “Il fascismo è stato molto abile a mascherare il suo volto all’interno del paese. Gli italiani nella stragrande maggioranza erano ignari di ciò che accadeva al di fuori delle frontiere e non sapevano cosa fosse il fascismo […]”. Corriere della Sera, Gli italiani non hanno colpe, restano brava gente, 11 novembre 1989.
Michael Palumbo, l’autore, intervistato da La Repubblica si disse sorpreso delle proteste e delle polemiche seguite alla messa in onda del programma: “[…] sono stupito dalla suscettibilità degli italiani- Se si dice inglesi, americani, tedeschi o i russi o persino gli israeliani hanno commesso nefandezze in guerra o nelle loro avventure coloniali, le proteste ci possono essere ma sono contenute, quelle causate dal mio programma “Fascist Legacy” mi sembrano sproporzionate”. La Repubblica, Italiani suscettibili, 11 novembre 1989.
“Con un ritardo di 45 anni, potrebbe succedere che un popolo faccia i conti con le colpe di una parte della generazione dei padri. Si tratta di correggere un’immagine consolidata secondo la quale in Italia hanno vissuto solo antifascisti e vittime della leva militare. Gli italiani non sono abituati ai rigori dell’etica protestante, c’è sempre un confessionale nel cuore di ognuno, e il confessionale rende il peccatore piccolo e subito perdonato […]”. Il manifesto, Smemorati, 11 novembre 1989.

Nicola Tranfaglia

Nicola Tranfaglia sviluppa una riflessione critica rispetto alla rimozione del passato fascista del popolo italiano: “[…] a noi italiani spetta rispondere ad una domanda di fondo che corre non da oggi tra i giornali e tra gli storici di mezzo mondo: è vero o no che in merito a quanto hanno fatto le nostre truppe di occupazione in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia noi ci siamo autoassolti con la complicità appunto degli anglo-americani? […]Che il nostro Ministero degli esteri sia dominato ancora da una mentalità da autoassoluzione, che include anche la monarchia e il fascismo, è dimostrata dal veto grottesco esercitato tuttora contro l’introduzione in Italia del film su Omar el-Mukthar, il leader della resistenza libica […] ma anche per quanto riguarda la Cirenaica […] i morti furono almeno 50.000, le popolazioni deportate tra gli 80.000 e i 100.000. Piccole cifre, certo, difronte alle dimensioni complessive delle stragi delle SS: ma non mi pare che ci si possa nascondere dietro la quantità dei morti e dei torturatori come pure tende a fare la storiografia revisionista italiana e tedesca (a cominciare da Nolte e De Felice). […] i nostri storici si sono mossi tardi su questi aspetti della politica fascista. […] I media […] si sono inseriti a fondo […] in questa ondata di autoassoluzione che ha rassicurato noi italiani […]”. La Repubblica, Tutti Assolti, 12 novembre 1989.
Nel dicembre 1990, nonostante l’atteggiamento critico manifestato complessivamente dalla stampa nazionale solo un anno prima, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, durante la sua visita di Stato nella Berlino riunificata dopo la caduta del Muro, affrontando l’argomento delle responsabilità dell’Italia fascista e della Germania nazista nella seconda guerra mondiale tese a distinguere le caratteristiche dei due fenomeni storici nella prospettiva di scindere dall’esperienza dittatoriale italiana da quella tedesca: “[…] davanti ai giornalisti enumera i motivi del particolare legame tra Italia e Germania, due nazioni che: “hanno condiviso la dittatura e la sconfitta, anche se c’è una differenza – dice Cossiga- il fascismo era sempre roba di casa nostra, noi non abbiamo conosciuto l’orrore dei campi di concentramento anche se molti hanno sofferto”[…]. L’Unità, 21 dicembre 1990.
Nel 1992 Indro Montanelli rivendicò orgogliosamente dalle pagine de Il Giornale il suo passato di colonialista: “[…] Noi in Eritrea siamo rimasti cinquant’anni eppure [sono] bastati per farne una regione infinitamente più civile e sviluppata del resto dell’Etiopia. Anche la nostra colonizzazione, si capisce, ha commesso errori ed ingiustizie. Efferatezze no, salvo il momento in cui Graziani, dopo il famoso attentato perse la testa. […] Non riesco proprio a vergognarmi di essere stato, come ufficiale delle truppe indigene, un colonialista”. Il Giornale, Nessuna vergogna, 14 settembre 1992.
A questa affermazione di Montanelli, seguì una lunga querelle giornalistica con  Angelo Del Boca, che si concluse con l’ammissione da parte delle istituzioni italiane e dello stesso Montanelli sull’esistenza di crimini di guerra e dell’uso di gas asfissianti contro le popolazioni civili africane.

Angelo Del Boca

 

Scrive Del Boca: “[…] Non ho lavorato per trent’anni per sentirmi dire che in fondo avevo ragione. Montanelli deve chiedere scusa agli italiani che per anni ha ingannato con i suoi libri e la sua testimonianza […] io spero che il nostro governo, consapevole dei torti fatti dal fascismo in Africa trovi il coraggio morale di condannare esplicitamente i metodi del colonialismo italiano e riconosca le sofferenze causate […]. Le racconto due episodi. Il primo riguarda il mio lavoro alla Farnesina. Fino all’85 non ebbi problemi, ma in seguito i documenti del periodo coloniale divennero inaccessibili. Per “riordino”. Il direttore degli archivi Enrico Serra per aiutarmi mediò un compromesso cono Andreotti che mi diede libero accesso ai documenti e mi permise di renderli pubblici ma mi vietò di darne la collocazione archivistica, il che per uno storico è come negare l’attendibilità del suo lavoro. Il secondo episodio invece riguarda il ministero della Difesa. Lì nell’88, e cioè non molti anni fa mi fu impedito di lavorare con ogni mezzo. i documenti erano in visione… non si trovavano… li aveva in mano tal generale… capii l’antifona e dopo dieci giorni me ne andai. Avevo compreso come stavano le cose da una frase del direttore di allora, il generale Bertinara, secondo il quale ero un amico degli etiopi e un nemico dell’esercito italiano”. Il Messaggero, E l’Esercito ammette: in Africa usammo i gas, 1 novembre 1995.

Nel febbraio del 1996 le dichiarazioni pubbliche in Parlamento del Ministro della Difesa, il generale Domenico Corcione, archiviarono definitivamente il tabù sui crimini di guerra italiani perpetrati in Etiopia durante le guerre di aggressione coloniale.
Per la stampa di sinistra la presa di posizione ufficiale del governo, espressa per di più da un generale dell’esercito, non fece che confermare la tesi di un colonialismo italiano non dissimile dagli altri. La documentazione ufficiale e le ammissioni delle autorità italiane costrinsero anche la pubblicistica più riottosa.
“Era il tassello ufficiale, il timbro che mancava: sulla verità o meno della “guerra sporca” contro i soldati del Negus si è infatti scaricata una guerriglia storiografica […] apparentemente anacronistica visto che l’effimera avventura nel corno d’Africa è in archivio da mezzo secolo. […] Tanto furore sembra incomprensibile perché a guardare bene il “segreto” non c’è […] è un episodio tra i tanti, narrato da testimoni attendibili le cui prove documentali si possono trovare facilmente negli archivi dello Stato Maggiore dell’Esercito e dell’ex Ministero dell’Africa Italiana […]”. La Stampa, 9 febbraio 1996.
“[…] Ci voleva un Ministro della Difesa con le greche del generale per ammettere ufficialmente quello che i borghesi ministri predecessori […] al contrario di quanto sostengono alcuni storici (in Inghilterra Denis Mack Smith, in Italia Angelo Del Boca) non avevano mai ammesso neppure ufficiosamente: e cioè che nella guerra di Abissinia […] anche gli italiani usarono i gas […]”. Il Giornale, L’esercito italiano usò i gas, 9 febbraio 1996.
Nonostante tali sviluppi il paese non operò, nella sua opinione pubblica, nella sua società civile e nelle istituzioni, una reale riflessione storico-politica in grado di ricollocare i termini e gli elementi finalmente emersi nel quadro di una più ampia e complessa riformulazione della coscienza e della stessa identità nazionale, che ponesse al centro del dibattito il ruolo assunto dall’Italia in ambito internazionale in rapporto alla politica di potenza che il regime fascista aveva perseguito in Europa e nel mondo.

Lutz Klinkhammer

 

Lo studioso tedesco Lutz Klinkhammer parlò di “percezione sbilanciata” del paese: “[…] La percezione sbilanciata della memoria collettiva italiana produce anche un altro effetto perverso, ossia la rimozione della brutale politica d’occupazione messa in atto dal fascismo italiano tra il 1935 e il 1943 in diversi paesi. Gli italiani in altre parole preferiscono rappresentarsi sempre come vittime – vittime del nazismo nel caso delle Ardeatine, vittime del comunismo nel caso delle foibe titine – dimenticando di essere stati anche brutali conquistatori di altrui terre […] ricevetti la telefonata di un giornale italiano politicamente schierato a sinistra. Il redattore mi chiese un giudizio sulle foibe. In un primo momento sono rimasto sbalordito, perché questa domanda confermava la mia ipoteso secondo cui gli italiani si pongono sempre dalla parte delle vittime. Risposi che era più indicato paragonare il caso delle Ardeatine con la strage di Debra Libanos, il massacro di quattrocento monaci copti ad opera delle forze d’occupazione italiana in Etiopia nel 1937. Ma il mio interlocutore mi fece capire di non aver mai sentito parlare della strage ordinata da Graziani. Ecco un altro esempio di come gli italiani abbiano rimosso la prospettiva degli autori delle stragi per privilegiare esclusivamente quella delle vittime […] manca una storiografia completa dell’occupazione fascista della Croazia, della Grecia, dell’Albania […]”. La Repubblica, Storici italiani siete parziali, 26 giugno 1997.
Nel settembre 2003, il dibattito sembra ancora non riuscire a mettere almeno in dubbio pensieri consolidati in decenni di silenzio, neanche fra le massime cariche dello Stato italiano, dove l’allora il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, affermava: “Mussolini non ha mai ammazzato nessuno; Mussolini mandava la gente a fare la vacanza al confino”.
Sull’occultamento dei documenti dell'”armadio della vergogna”, Nicola Tranfaglia: “[…] Giacché in quei fascicoli c’erano […] le pesanti responsabilità dei militari della Repubblica di Salò, che furono spesso complici degli eccidi consumati dalla Wermacht e dalle SS naziste. E questo evidentemente non andava bene in una Italia che aveva ereditato in gran parte nelle istituzioni e persino in parlamento, collocati nel Movimento sociale e nei partiti monarchici ma anche nel partito cattolico, un numero assai alto di fascisti riciclati nei primi anni della guerra fredda […]”. L’Unità, Chi nasconde la verità, 23 giugno 2004.

Nel febbraio 2007 durante il primo intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la celebrazione del “Giorno del Ricordo” finì per creare una forte tensione diplomatica tra l’Italia e il governo croato: “[…] già nello scatenarsi di una prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni della “pulizia etnica”. Quel che si può dire di certo è che si consumò – nel modo più evidente con la disumana ferocia delle foibe – una delle barbarie del secolo scorso […] l’odissea dell’esodo, e del dolore e della fatica che costò a fiumani, istriani e dalmati  ricostruirsi una vita nell’Italia tornata libera e indipendente ma umiliata e mutilata nella sua regione orientale”.

Stipe Mesic

 

Il primo ministro croato Stipe Mesic si disse “costernato” delle parole di Napolitano: “…nelle quali è impossibile non intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico […] la Croazia ritiene ogni tentativo di mettere in questione il trattato di pace del 1947 e gli accordi di Osimo, ereditati dalla Croazia come uno dei successori delle Jugoslavia, è inaccettabile”. Corriere della Sera, 13 febbraio 2007.
Lo scontro diplomatico portò il ministro degli esteri Massimo D’Alema ad intervenire dapprima con dichiarazioni pubbliche di sostegno a Napolitano e poi con la convocazione di un incontro con l’Ambasciatore croato a Roma: “[…] È una reazione che stupisce e addolora in quanto immotivata – commentò D’Alema – Mesic dovrebbe sapere che si rivolge al presidente dell’Italia democratica e antifascista […] la reazione di Mesic appare tanto più sorprendente in quanto […] non coglie le parole vere di Napolitano […]. L’Italia democratica ha più volte riconosciuto quanto sia stato grave ciò che ha fatto il fascismo nei Balcani.  Parliamo di un grande paese che non ha mancato di denunciare gli orrori della guerra fascista nei Balcani […] il Presidente croato dovrebbe sapere che molti degli uomini che poi hanno dato vita alle forze politiche e democratiche del nostro paese, hanno combattuto a fianco dei partigiani jugoslavi e contro l’occupazione nazifascista”. La Repubblica, 13 febbraio 2007.
In difesa delle parole del Presidente della Repubblica italiana si schiera anche il presidente di Alleanza Nazionale, ed ex ministro degli esteri, Gianfranco Fini che dichiarò: “[…] Mesic ha offeso non solo il presidente Napolitano, cui va la nostra piena solidarietà, ma anche la verità storica. Le sue parole sono gravissime ed inaccettabili, rischiano di allontanare la Croazia dalla Ue e rispondono solo ad una logica ultra-nazionalista e revanscista indegna per il capo di uno stato di un paese democratico e amico dell’Italia”. La Repubblica, 13 febbraio 2007.
Di tenore difforme fu la presa di posizione dell’ex Presidente della Repubblica Cossiga che sottolineò alcuni degli aspetti più controversi della vicenda del confine italo-jugoslavo tra i quali l’occupazione della regione e la repressione anti-partigiana operata dalle forze del Regio Esercito: “[…] Sarebbe bene ricordare le persecuzioni fasciste contro le minoranze slovena e croata e la repressione italiana contro la resistenza jugoslava dopo l’ignobile aggressione fascista a questo stato. Dico questo non certo per giustificare lo scempio delle foibe ma per pronunziare eque condanne. Onore a Napolitano, ma non sarebbe male che visitando Trieste, onori le Foibe, onori la Risiera di San Sabba, e non dico vada, ma almeno mandi un fiore alla lapide in ricordo dei giovani d’etnia slovena in provincia di Trieste fucilati da un reparto delle forze armate italiane per aver rifiutato di prendere le armi contro la propria gente”. Il Riformista, 13 febbraio 2007.

Questo articolo è la prima parte della ricerca di Leonardo Marani sulle violenze italiane nella Slovenia occupata dai fascisti. Marani confuta il mito degli “italiani brava gente” mostrando, con una ricca serie di esempi e documentazione, il vero volto dell’occupazione italiana, concentrandosi poi sul successivo dibattito storico-politico legato a questa vicenda. (ndr)

Come riportato da Rosario Bentivegna, che in Montenegro fu commissario politico delle brigate partigiane, il termine palikuća (incendiario, “bruciatetti”) fu usato dalla popolazione civile per indicare il soldato italiano. (nda)

 

La politica aggressiva nella Venezia-Giulia dall’avvento del fascismo alla vigilia dell’attacco alla Jugoslavia

Nella regione della Venezia-Giulia durante il Ventennio si manifestò un alto tasso di violenza repressiva. La prima clamorosa azione squadristica antislava si ebbe il 13 luglio 1920, con l’incendio del Narodni Dom (Casa del popolo o della nazione) di Trieste, principale sede delle organizzazioni slovene in Italia; Il Piccolo di Trieste scrisse: “[…] le fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste, purificano l’anima di tutti noi […]”.
Nel novembre 1925, Mussolini aveva iniziato a porre le basi di quel “fascismo di frontiera” capace di coagulare le forze nazionaliste italiane attorno all’antislavismo combinato con l’antibolscevismo. La politica di snazionalizzazione degli “allogeni” eliminò progressivamente le poche istituzioni slovene e croate mantenute dopo la prima guerra mondiale, in nome di una presunta superiorità della civiltà italiana. Prese avvio la “bonifica etnica” (o “nazionale”) della regione, che prevedeva la promozione dell’emigrazione, la confisca delle terre e l’esclusione delle lingue slovena e croata persino dalle chiese.
Contro questa linea politica dura e nazionalista operarono due organizzazioni clandestine, la “TIGR” (dalle iniziali di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume, in sloveno Reka) e la “Borba” (lotta), le quali praticavano sabotaggi a impianti militari e ferroviari, incendi di scuole e sedi fasciste. Erano tuttavia azioni armate limitate, sia per numero che per dimensioni, e furono contrastate duramente dal regime per tutti gli anni Venti e Trenta con arresti, condanne al carcere, provvedimenti di invio al confino.

Vladimir Gortan

Nel 1929, a Pola, viene processato un gruppo di antifascisti croati accusati di aver sabotato le elezioni plebiscitarie nel paese di Beram, impedendo agli elettori di recarsi alle urne: Vladimir Gortan, considerato capo del gruppo, venne condannato a morte, quattro suoi compagni a 30 anni di carcere. Un anno dopo alcuni militanti della “Borba” vennero condannati per le bombe al faro della Vittoria e all’ingresso della redazione del “Piccolo” a Trieste. Quattro imputati vengono condannati a morte e fucilati al poligono di tiro di Basovizza, altri 12 a pene detentive sino a 30 anni.

 

Lo scoppio della seconda guerra mondiale e il volto violento dell’occupazione

Il 6 aprile 1941 scattò l’«Operazione Castigo», l’attacco congiunto delle truppe dell’Asse (Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria) contro la Jugoslavia, che portò in meno di due settimane al collasso dell’esercito e dello Stato jugoslavo.
Il 1 giugno 1941 venne resa operativa la questura di Lubiana, con carceri preventivi, che servivano da camera di tortura durante gli interrogatori, dove la polizia italiana fu particolarmente spietata (scosse elettriche, stupri), tanto da suscitare le proteste di ufficiali con funzioni di giudici presso il tribunale militare.
Dal febbraio 1942 la repressione interna nelle zone della Slovenia e del Montenegro subì un’accelerazione e un rafforzamento complessivo in termini di leggi, decreti, forze numeriche impiegate (saranno circa 650.000 i soldati italiani stanziati nei Balcani) e recrudescenza delle operazioni contro civili e partigiani. Le autorità civili e militari italiani cinsero con filo spinato e reticolati l’intero perimetro di Lubiana, disposero un ferreo controllo su tutte le entrate e le uscite della città e consentirono l’allontanamento solo dietro il rilascio di appositi permessi. Lungo il recinto di 41km vennero dislocati 60 posti di armati che trasformavano Lubiana in un immenso campo, nel quale entrarono in vigore le leggi militari.
La Circolare 3C fu diffusa una prima volta nel marzo 1942 e una seconda volta nel dicembre dello stesso anno. L’Alto Commissario Emilio Grazioli criticò la condotta di Roatta, sostenendo come i comandi militari in Slovenia stessero: “ricalcando gli errori tedeschi” e come fosse controproducente il colpire le popolazioni rurali inermi.
In Jugoslavia l’esercito italiano ricorse all’internamento dei civili nel quadro di un’occupazione violenta ed esplicitamente razzista che non escludeva l’incendio dei villaggi e la fucilazione di ostaggi civili, seguendo anche il fine della “sbalcanizzazione” del territorio, che lasciò nelle popolazioni locali “uno strascico di rancori e risentimenti nei confronti della comunità italiana, che ancora oggi stenta ad attenuarsi.”
Quando nel giugno 1942 si insediò a Trieste l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, con la facoltà decidere liberamente sulla deportazione dei civili, l’internamento degli “allogeni” divenne un vero e proprio incubo collettivo, ed anche il Regio esercito ebbe in esso un ruolo molto attivo.
È difficile stabilire con precisione quanti civili jugoslavi furono coinvolti nell’internamento fascista. Non sempre le autorità militari istruivano un fascicolo personale per ogni individuo avviato all’internamento. Si può valutare in circa 100.000 il numero dei civili “ex jugoslavi” internati dall’Italia e, dagli ultimi mesi del 1942, anche gli “allogeni” sloveni e croati residenti nei vecchi confini del Regno d’Italia. Questa stima proposta da Carlo Spartaco Capogreco è però una delle più basse, ve ne sono molte numericamente più significative, anche ampiamente oltre le 300.000 unità.
Una goriziana allora quattordicenne, arrestata il 27 settembre 1942 e rinchiusa nell’ex convento di Castagnevizza, raccontò: “Mio fratello maggiore era fuggito, come altri della zona, con i partigiani. Erano perciò venuti i carabinieri a chiedere notizie e noi avevamo detto che si era allontanato in cerca di lavoro, ma siccome da tempo erano molti quelli che sparivano così, […], non ci credettero. […] i militi rubavano a man bassa: a qualcuno, per togliere gli orecchini, strapparono addirittura i lobi delle orecchie; vi furono tentativi di violenza su alcune detenute più giovani, ma il maresciallo riuscì a tenere in mano la situazione, […], meritandosi con ciò la nostra stima.”
Tito tra la primavera e l’estate del ’41 considerava gli italiani come gli occupanti più deboli e meno ostili, “Diversamente agiscono gli imperialisti italiani in Slovenia. Poiché non si sentono abbastanza forti […], gli italiani hanno concesso una certa autonomia a quel poco della Slovenia che si sono annessi. Essi hanno messo al loro servizio la borghesia locale, ritenendo con ciò di poter più facilmente condurre la loro politica di oppressione nazionale; hanno l’esperienza dell’Istria asservita, dove mai e con nessun mezzo sono riusciti a domare e a distruggere la coscienza nazionale della popolazione slovena e croata istriana”. Nel giugno del 1941 Tito scriveva a Mosca: “Gli italiani in particolare fanno presto amicizia con la gente del posto e dicono che sono stufi della guerra […]. Con gli italiani si può lavorare magnificamente”.
Gli italiani non controllavano da soli il territorio jugoslavo: oltre alle altre nazioni che avevano partecipato all’”Operazione Castigo”, si aggiunsero dall’estate del 1941 gli ustascia, i quali iniziarono una brutale politica di pulizia etnica contro la popolazione serba. Per evitare che la situazione degenerasse, il 26 agosto tedeschi e italiani decidono di occupare militarmente il territorio croato, con una linea di demarcazione che corre lungo l’asse nord-sud.
Gli ustascia erano gli alleati ufficiali dell’Asse, ma erano anche in aperto contrasto con i cetnici; questi ultimi, pur opponendosi all’occupazione, sono in primo luogo impegnati a contrastare i partigiani comunisti e in questa prospettiva si alleano agli italiani, mentre i tedeschi ne diffidavano privilegiando gli ustascia. L’occupazione diventa un intrecciarsi di guerra di liberazione, guerra di classe, guerra etnica e di religione, con un crescendo di violenza e brutalità.
In Montenegro il tradizionale indipendentismo locale, intrecciato allo spirito filorusso risvegliatosi dopo l’attacco nazista all’Unione Sovietica, si scontra con la volontà italiana di crearvi uno Stato satellite, dando vita ad una sollevazione dominata solo dopo oltre un mese di controffensive e di durissime repressioni.
Il controllo del territorio, dopo una vittoria fin troppo facile, si mostra ora sempre più apertamente ostile. Vi è già stato un mutamento nei rapporti quando, il 15 dicembre 1941, il Comando generale dei distaccamenti partigiani del Montenegro esortava in un appello i soldati italiani ad unirsi a loro, scrivendo: “Negli ultimi tempi, i vostri ufficiali vi hanno costretto a compiere tutta una serie di obbrobriosi crimini […]. L’incendio dei villaggi […], il massacro di intere famiglie insieme con i bambini in quei villaggi, è un orribile delitto che vi infanga non soltanto di fronte a questo popolo occupato ma anche agli occhi del vostro popolo italiano […].”
Nel dicembre del 1941, a Trieste, dei sessanta imputati per cospirazione armata e spionaggio politico e militare, nove sono condannati a morte (per quattro la pena viene commutata nell’ergastolo), 23 a 30 anni di carcere, gli altri per pene detentive complessive per 666 anni. Per le torture subite 3 imputati moriranno prima della sentenza, altri 2 in carcere.

Edvard Kardelj

Il 29 marzo 1942, l’indurirsi dei metodi degli occupanti è ormai chiaro e denunciato da Edvard Kardelj, che scriveva dalla provincia di Lubiana a Tito: “Indescrivibile terrore; sotto certi aspetti gli italiani superano i tedeschi. Hanno deportato in campi di concentramento più di 70.000 uomini (pochissime donne), fra cui molti intellettuali […]. I villaggi intorno a Lubiana e nell’interno bruciano uno dopo l’altro. Gli italiani danno alle fiamme tutto ciò che sta ai lati delle camionabili […]. In quindici giorni a Lubiana hanno fucilato 21 persone condannate dalla corte marziale; nei villagi le fucilazioni si ripetono ogni giorno senza processi e condanne; rapinano, ammazzano donne.”
Un punto di vista di quegli occupatori, in quel pezzo di mondo, in quel momento di storia, è di Don Pietro Brignoli, cappellano militare bergamasco del 2° reggimento Granatieri di Sardegna, che scrive nel suo diario: “I nostri nemici e i nostri amici, in quest’ora fosca della storia, non han peccato e non peccano meno e meno gravemente di noi. […] La fucilazione di ribelli (magari anche, per sbaglio, qualche innocente) va raffrontata alle navi ospedale colate volontariamente a picco, e alle città ridotte dai bombardamenti a mucchi di macerie fumanti, sotto le quali ardono le carni dei deboli e degli innocenti. […] I tedeschi incendiano, gli italiani nei Balcani incendiano, l’Inghilterra butta bombe incendiarie su Milano, Genova e altre città d’Italia e di Germania, i giapponesi incendiano: tutto il mondo è in fiamme. […] Non intendo calunniare in modo speciale l’Italia e sento che dicendo Italia non dico bene, perché vorrei dire il governo italiano; ma anche così direi male, perché il governo può aver dato solo direttive (e so che ne ha date). Dovrei dunque dire il comando delle Forze armate; ma anche dicendo così probabilmente accuserei se non molti, alcuni innocenti. […] la vera colpa è della guerra: e siccome la guerra la fanno tutte le nazioni del mondo, la colpa è dell’umanità”.

A seguito di un’imboscata, fatta da partigiani titoisti, morirono 33 granatieri, tra cui il comandante del suo battaglione. Ne conseguì una rappresaglia, la zona fu battuta metro a metro, si imprigionarono tutti i maschi validi, qualcuno venne fucilato sul posto perché trovato con le armi in mano. Dei 70 prigionieri, 14 furono condannati a morte, raccolti in tre gruppi (5, 5, 4). Don Brignoli domanda al medico, “giovanissimo, pallido come i morituri, le bende: non le ha. Dico al comandante del plotone, giovanissimo e sbiancato, di dare disposizioni precise ai soldati per non far soffrire, oltre il bisogno, i condannati: i soldati borbottano che non è il loro mestiere, che non si sa se quella è gente davvero colpevole. […] Devo intervenire […] a rassicurarli che non hanno responsabilità, a pregarli che sparino bene”. Durante un’altra fucilazione, nel primo gruppo di giustiziati ce n’è uno che si mette sull’attenti e grida “Viva l’Italia”. “I soldati non volevano più sparare, nessuno più fiatava. […] uno scoppiò a piangere, e tutti spararono male, tanto male che un condannato della seconda muta, colpito basso, tra il petto e il ventre, restò in piedi, e due fontane di sangue gli scoppiarono dal ventre e noi, istupiditi, si stette a guardarlo, e a guardarci a vicenda senza sapere che fare, per lo spazio eterno di un minuto. Poi finalmente cadde”.
Dopo il ritrovamento di un paio di bombe a mano in un fienile di una casa abitata da padre e figlio, quest’ultimo viene fucilato, il padre, settantacinquenne, viene invece risparmiato. Il giorno successivo un superiore rimprovera il comandante del battaglione di fiacchezza, la conseguenza è il rastrellamento di altri quattro uomini messi al muro e fucilati. Vi è poi un susseguirsi di incendi di villaggi e di una chiesa, sono fucilati uomini e donne, tra cui quattro fratelli e un padre di otto figli. Con il tempo l’indurimento dei comportamenti è sempre più palese, “un sottotenente che segnava ogni fucilato con una tacca sul calcio del moschetto, quasi fosse un punto d’onore… e c’era un maggiore che ripeteva “dovremmo sistematicamente insegnare al nostro soldato ad ammazzare.”[…]I nostri esploratori hanno ucciso, per sbaglio, una donna di sessant’anni, un bimbo di dieci, una bambina di quattordici. Effetti della paura…”, mentre c’è chi uccide con compiacimento, imbarbarito dalla guerra: “Oggi si è fucilato un giovanotto ferito. […] Gli dissero che tornasse a casa sua e si curasse coi suoi mezzi; e quando fu avviato, lo fecero raggiungere da una scarica di mitraglia”.
Un nostro soldato, Gino Gheraldini della “Ferrara”, nell’estate del ’43, scriveva a casa che “nei rastrellamenti spesso si uccide a casaccio, al minimo sospetto […]; qualche malvagio sfoga i suoi istinti bestiali.”

Soldati italiani fucilano contadini in Slovenia

Il capitano Antonio Modica scriveva in una lettera datata 14 luglio 1942: “Mi sento un boia. A furia di vedere barbarie incattivisco – non ho pietà nemmeno io stesso – comincio a restare impassibile dinanzi alla rovina. […] Io che non amo la guerra, che non ho nulla da guadagnare dalla guerra, … e il cui ricordo sarà per me reumatismo. Non mi sembra di lavorare qui per la grandezza della patria – mi sembra meschina l’idea che quattro ribelli possano influire nel destino della mia terra…”. Ma non tutti si lasciarono impressionare da quanto stava accadendo, il giornalista de Il Messaggero, Vittorio Gorresio, corrispondente di guerra nei Balcani in quegli anni, così scrisse nel suo diario, poi pubblicato col titolo “La vita ingenua”: “Ho avuto modo… di assistere alla fucilazione di 50 ribelli…, è una cosa terribile, ma non puoi fare a meno di godere […], è sempre ancora troppo poco far loro saltare (letteralmente) le cervella e squarciare la loro pancia e le loro membra a raffiche di mitraglia”. Il maggiore Giuseppe Agueci scriveva: “Gli sloveni dovrebbero essere ammazzati tutti come cani e senza alcuna pietà.”

Altri invece, come Angelo Salvi, fante, sono impressionati dalla tenacia e dal sentimento anti-italiano che cova la popolazione che li circonda; scrive Salvi in una lettera: “Qui le donne e le ragazze vestite da soldato combattono fino all’ultimo momento e quando vengono prese e fucilate muoiono col sorriso gridando “viva il comunismo e morte agli italiani” e ci sputano contro. Se vedeste, perfino i bambini di 12 anni col moschetto ti sparano contro. Quando li prendi ti mordono e gridano: “vigliacco italiano, porco, fetente”. Questa gente ha una grande fede e un grande odio contro di noi, e così non la finiremo mai in queste terre. E noi altri siamo molto stufi”.

 

Differenze tra Wehrmacht e Regio esercito

Per gli strateghi tedeschi il terrore sistematico è strumento centrale della politica di occupazione, mirato a deprimere la popolazione nemica sotto il peso della paura. La violenza del Regio esercito appare come una reazione difensiva di fronte agli attacchi partigiani e all’ostilità dei civili, spesso scomposta, che appare più come una manifestazione di debolezza che come un esercizio di forza.
La repressione italiana nasce dalla fragilità stessa del sistema di occupazionale, dall’incapacità di affermare un sistema di autorità riconosciuta, dalla confusione e sovrapposizione fra organi amministrativi civili e comandi militari, e finisce così per avere più un carattere difensivo che offensivo; è la guerriglia ad imporre i tempi. La violenza tedesca è invece funzionale ad un sistema di potere e di controllo del territorio, prevede l’utilizzo di truppe specializzate, sottoposte ad un apposito addestramento e selezionate sotto il profilo ideologico e psicologico. Sono capaci di operare con durezza, con una pressione militare costante contro le bande costringendole a continui spostamenti e impedendo i rapporti con la popolazione, quest’ultima intimidita con azioni sia preventive, che punitive, sono affidabili dal punto di vista della “tenuta mentale” di fronte ad azioni punitive contro persone inermi.
La “filosofia ispiratrice” dell’internamento civile fascista non mirava allo sfinimento degli individui o allo sfruttamento del lavoro schiavistico. Esiste tuttavia un documento della Direzione generale di pubblica sicurezza dei primi mesi del 1940 in cui campi “non si debbono più essere intesi come luogo di ozio dove gli individui sono costretti, inattivi, ad attendere la calata del sole, ma devono essere campi di operosità per produrre, comunque, ciò che occorre alla generalità… Tanto più organica e proficuo riuscirà il campo di concentramento, e men oneroso per lo Stato, […] non sarà certamente agli individui meno desiderabili che useremo privilegi…”. Il loro impiego sarà però limitato nella maggior parte dei campi alla realizzazione di orti, alla trasformazione agraria e fondiaria, per la costruzione delle stesse infrastrutture abitative, per le pulizie, nelle cucine o per la cura dei compagni, senza mai raggiungere la realizzazione di campi “autarchici”. L’obiettivo perseguito rimane quello della messa al bando degli elementi ritenuti pericolosi, sospetti o indesiderabili e la “pulizia” dei territori considerati a rischio.

 

Dibattito pubblico durante la guerra e nell’immediato dopoguerra

Quando il conflitto mondiale era ancora in corso, la questione della condotta e delle azioni del Regio esercito nei territori occupati e delle responsabilità italiane circa le deportazioni e le migliaia di morti causate dalla politica di aggressione in Africa e nei Balcani, era un tema che aveva preso piede all’interno di una parte della stampa nazionale. Ad essere interessati a questa delicata questione furono quasi esclusivamente i giornali della sinistra antifascista, attraverso L’Italia Libera, del Partito d’Azione, L’Unità, del Pci, e L’Avanti! del Partito Socialista.
“[…]Sembrò tristissimo auspicio il fatto che il governo Badoglio nel rimandare alle loro case […] i condannati e i confinati politici escludesse esplicitamente dal provvedimento di liberazione slavi e greci […]”. L’Italia Libera, Gli italiani e la solidarietà europea, 25 settembre 1943.
“[…] Nostre regioni del Carso e del Goriziano furono sgomberate e popolazioni deportate in massa in campi di concentramento; villaggi interi […] furono saccheggiati ed incendiati […] e quel che è più doloroso è che il governo fascista fece di tutto perché queste imprese fossero compiute oltre che da elementi squadristi sempre zelanti e volontari esecutori, anche da reparti del nostro Esercito […]”.  L’Italia Libera,  Lettera da Trieste, 20 gennaio 1944.
Dal 1944 in merito ai crimini italiani iniziarono a circolare notizie, anche in cifre non troppo lontane dalle stime odierne, e ad affermarsi quella posizione politica, comune a quasi tutte le forze antifasciste italiane escluso il Pci, secondo la quale sarebbe spettato all’Italia fare giustizia e quindi processare in patria i presunti criminali di guerra, senza dover ricorrere all’estradizione dei militari italiani nei paesi richiedenti:
“In un biennio più di ottocento ostaggi furono giustiziati nella sola città di Lubiana […] nella sede della Questura si interrogavano tra tormenti, percosse e torture a morte tutti quelli che erano stati casualmente “razziati” per le strade. […] Dobbiamo confessare che nessuno di noi aveva mai immaginato una tale ferocia negli italiani […] quarantamila sloveni furono trasportati in campi di concentramento italiani […]. Continuavano ininterrotte le fucilazioni di ostaggi. […] anche elementi del Regio Esercito vi hanno collaborato […] particolarmente impiegati i Granatieri di Sardegna. In tutta la regione villaggi vennero dati alle fiamme, migliaia di contadini accoppati senza cerimonie […] l’Esercito […] trovava più pratico incendiare i villaggi o bombardarli con l’artiglieria o con gli aeroplani […] una cosa volgiamo noi tutti sloveni […] i responsabili del nostro martirio, quelli che hanno commesso i misfatti vanno chiamati alla resa dei conti e giustizia deve essere fatta”.  L’Italia Libera, Lettera da Lubiana, 20 maggio 1944.

Pietro Nenni

Anche l’organo socialista L’Avanti! convergendo sulle posizioni politiche del Partito d’Azione rivendicò all’Italia il diritto di processare i presunti criminali di guerra del Regio Esercito. Pietro Nenni delineò un quadro complessivo di rinnovamento politico e istituzionale per il Paese, aggiungendo che le forze antifasciste avrebbero operato nel campo dell’epurazione e dei procedimenti giudiziari una distinzione, tra coloro che avevano accettato passivamente il fascismo “per il pane” e coloro che erano stati i principali animatori e responsabili delle politiche del regime:
“[…] Ci sono prima di tutto le responsabilità di Mussolini; […] la criminale dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 […] di tutto questo Mussolini ed il re dovranno rendere conto al paese. Le nazioni Alleate hanno nel loro programma la punizione dei criminali di guerra. Noi rivendichiamo per il nostro popolo il diritto di giudicare e di punire con inflessibile severità i nostri criminali di guerra […] non chiediamo la testa del fascista al quale la tessera teneva luogo di carta e pane. Chiediamo quella dei responsabili della rovina e della umiliazione della nostra nazione […]”. L’Avanti!, Il nefasto 9 settembre, il 17 giugno 1944.

L’Unità nell’agosto 1944 pubblicò le foto di corpi seppelliti o di partigiani impiccati in Montenegro con acclusi alcuni commenti e considerazioni, del tipo: “Ecco un documento, tra mille, delle atrocità commesse nel Montenegro da generali ed alti ufficiali fascisti. Anche per lavare quest’onta è necessaria una pronta e radicale epurazione dell’esercito”. L’Unità, Politica Estera, 22 agosto 1944.
L’Unità, a differenza di tutti gli altri organi di stampa nazionale, non si espresse per il rifiuto della consegna degli accusati, pubblicando invece l’elenco dei nomi dei militari accusati e la domanda di estradizione dove erano presenti le motivazioni di tale richiesta. Secondo la dirigenza del Pci bisognava marcare la rottura con il passato consentendo l’estradizione dei militari maggiormente compromessi con il regime, per poi potersi presentare agli Alleati alle trattative di Parigi come un paese fortemente rinnovato, evitando anche accordi eccessivamente punitivi sul piano politico ed economico.
Il trattato di pace prevedeva un processo ai criminali da parte delle potenze straniere:  questo elemento fu contestato dalla stampa nazionale conservatrice, che ne parlò come un diktat imposto al paese e rivendicò la diversità della condizione tedesca da quella italiana, mentre nei territori occupati dei Balcani si accusò Tito di ferocia e spietatezza.
All’inizio del 1948 le nuove sollecitazioni jugoslave riaccendono l’interesse de L’Unità e dell’Avanti!. Quest’ultimo l’8 gennaio 1948 pubblicò due documenti nei quali si dimostrava la responsabilità del generale Taddeo Orlando, in quel momento segretario generale del ministero della Difesa, come firmatario delle carte, nell’esecuzione delle fucilazioni di civili e partigiani in Jugoslavia, di un ordine segreto con il quale proibiva alle sue unità di consegnare al tribunale militare qualunque ribelle o persona catturata con le armi in pugno. Egli non esitò a eseguire gli ordini e comandò alle sue truppe di incendiare villaggi e internare civili.

Un altro nome di spicco fra quelli presenti nell’elenco dei criminali di guerra che interessò la stampa nazionale, fu quello di Achille Marazza, importante esponente della DC. Il Corriere della Sera e La Stampa contestarono tenacemente le accuse, denunciandone la strumentalità e contrapponendovi ancora una volta il tema delle violenze jugoslave contro gli italiani della Venezia-Giulia e dell’Istria. Il Partito Socialista decise comunque di chiedere pubblicamente l’epurazione di Orlando, mentre l’Ambasciata jugoslava a Roma organizzò una conferenza stampa in cui furono dichiarati i nomi dei militari italiani e i capi d’accusa loro contestati.
La stampa conservatrice tornò allora a contestare la fondatezza delle accuse e l’utilizzo strumentale da parte jugoslava della vicenda dei crimini di guerra, finalizzata ad esercitare pressioni sul governo italiano in merito alla questione ancora da definire dei confini territoriali fra i due Stati. Le fucilazioni e le deportazioni dei civili furono descritte e considerate come normali operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico, turbato dagli atti dei partigiani qualificati come “banditi” e “irregolari”, così come li avevano considerati a suo tempo le autorità fasciste.
Stabilendosi il quadro politico generale, interno ed internazionale, con le elezioni del 18 aprile 1948, la firma del Patto Atlantico a Washington (4 aprile 1949), la costituzione ufficiale della Nato (24 agosto 1949), e la rottura tra Stalin e Tito del giugno 1948, che indeboliva quest’ultimo, sulla vicenda calò il silenzio; come scriveva il Ministro degli Esteri Zoppi: “può dirsi oggi che lo stesso governo jugoslavo, che si era nel passato mostrato il più accanito, ha di fatto, da oltre un anno rinunciato a reclamare i presunti criminali di guerra italiani. La questione può quindi considerarsi superata. […]”.
Le posizioni politiche mutarono a tal punto che sulla stampa italiana vennero tracciati dei profili lusinghieri di alcune personalità militari che avevano rischiato l’incriminazione o erano stati effettivamente inseriti nelle liste della Commissione ONU per i criminali di guerra. Pietro Badoglio, il primo nome sulla lista dei criminali italiani, rilasciò un’intervista a Indro Montanelli sul Corriere della Sera nella quale negò l’uso dei gas in Africa e dimostrandosi estremamente sereno rispetto ad una sua possibile incriminazione.
L’ultimo tentativo di riaprire il dibattito sui criminali di guerra italiani fu di Roberto Battaglia, in prossimità delle elezioni politiche del 1953, che dalle colonne de L’Unità pose nuovamente l’attenzione sul carattere repressivo dell’occupazione fascista in Grecia e Jugoslavia, senza però ottenere l’attenzione sperata.